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Nuvola

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Medioevo

Nel periodo romano la nostra contrada era interessata dalla presenza di un fundus, databile al II sec d.C. quando nella onomastica coeva si trovano diversi gentilizi quali Nebo, Tullio Nebusi e Naevolius. (1).
La proprietà era costituita dall’abitazione del patrizio, dalle case dei contadini e dai terreni coltivati. Collegata con S. Martino, Pugliano, S. Marco e Fontigliano, l’insediamento agrario ebbe una certa continuità fino al periodo latino medievale quando sono documentati i toponimi peczia e pezza larga.
02
Con l’arrivo dei longobardi il fundus venne assegnato al capo fara (gruppo famigliare) residente nella Sala di S. Martino. Nella località Cupa della Fontana Grande, probabilmente nell’ultimo decennio del settimo secolo si insediò un dominus appartenente alla famiglia longobardo residente nella Sala di San Martino o proveniente da altro sito. Questa struttura fu un punto di riferimento per l’intera zona fin tanto che i signori abitavano in loco per poi decadere nei decenni successivi a causa dello spostamento della famiglia signorile.
A valle della sala, troviamo un antico toponimo detto “sala dei morti” il quale indicava il luogo di sepoltura dell’insediamento. La presenza di questa area cimiteriale ci fa presupporre che la sala abbia avuta un certa consistenza e continuità temporale fino, probabilmente, agli anni ’60 del IX secolo.
03
Nel corso del decimo secolo, nella località Bracello, fu interessata da piccoli insediamenti di famiglie longobarde. Il ceto sociale di questi nuclei famigliari era costituito da allodieri e cortisani. Uno di questi piccoli proprietari costruì un edificio di culto di cui non conosciamo l’intitolazione, dotandolo di vari beni.
I normanni, per il controllo del territorio, costruirono un nuovo aggregato di case, una torre e una chiesa dedicata a S. Nicola, Santo caro alla Principessa di Salerno Sichelgaita. Nel 1172 uno del comproprietari di S. Nicola detto de Oruto, il milites Matteo De Corsellis vende la sua parte all’Arcivescovo di Salerno, il quale con questo acquisto rafforzò il controllo feudale ed ecclesiastico nella nostra zona.
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Nel corso del Duecento, la struttura sociale costruita intorno a S. Nicola si disgregò a causa dello spostamento progressivo dei contadini verso il vecchio sito longobardo del Bracello, ove troviamo un villaggio posto sulla via di comunicazione che risalendo il vallone Mainente arrivava a S. Marco. Durante il secolo il villaggio raggiunse un livello economico e demografico tale da essere il principale borgo esistente tra S. Croce e Nuvola.
Durante il XIV secolo, il progressivo calo demografico causato dalla peste nera portò alla rivalutazione dei siti di altura quali S. Nicola e Nebulano, dove si rifugiarono gli abitanti dei borghi vicini. Questi due luoghi antropizzati, formati da aggregati a corte chiusa, furono edificati dal ceto di vassalli della chiesa, i quali riuscirono a garantire alla popolazione locale lavoro e sicurezza.
05
Negli anni settanta e ottanta del XV secolo il nuovo assetto politico militare vide l’affermarsi delle famiglie D’Arminio e Sparano, rappresentate rispettivamente da Carlo e, probabilmente, da Matteo, strenui difensori della nuova dinastia Aragonese dei Trastamara. (2)
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La ricchezza e il prestigio delle due famiglie favorì un progressivo incremento demografico e un maggior tenore di vita agli abitanti del villaggio. I due aggregati di S. Nicola e Nebulano, in questa nuova fase interagendo tra loro con l’apertura di nuovi collegamenti, consentirono un ampliamento del tessuto urbano e una maggiore interazione con i villaggi viciniori. Tale condizioni di supremazia viene riconosciuta dagli estensori del Diploma del 1494 in cui il fortilizio viene detto Nebulano, (3) perché era posto sopra uno dei più importanti abitati di Montecorvino.

Note:

  1. “Nebulano deriva da un Nebulus diminutivo si Nebus. Vi sono al riguardo diversi gentilizi: Nebo Tullio Nebusi, Naevolius, (nome proprio maschile e femminile) e la liberta Naevoleia. Il personale maschile Naevolius e il personale femminile Naevoleia sono documentati in età imperiale ad Alife e Pompei”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia 2001. pp. 101-116. “NAEVOLEIA. I. LIB. TYCHE. SIBI. ET. C. MUNATIO. FAUSTO. AUG. ET. PAGANO. CVI. DECURIONES. CONSENSU. POPULI:, in T. Mommsen, Corpus Inscriptiones Latinarum, (C.LI.), X, n. 1030, Berlino, Reimer, 1883. n particolare il nome fu trattato da F. Niccolini, Il sepolcro di Naevoleia, in Pompeiana , anno X, p. 94.
  2. F. Serfilippo, Ricerche storiche sulla origine di Montecorvino nel Principato Citeriore, Napoli 1856, pp. 100-101.
  3. F. Serfilippo, Ricerche storiche sulla origine di Montecorvino nel Principato Citeriore, op. cit., p. 100.

S. Bartolomeo seu Bracello

01
Il toponimo Bracello, probabilmente, di origine longobarda, piccolo campo pianeggiante irriguo, era sito alla località Tempa, zona con piccoli pianori (1) ricchi di acque sorgive.
Tale luogo, connesso con gli abitati di Nuvola, S. Martino (Sala), Torello (Curtis) e Pugliano (curtis), fu interessata da piccoli insediamenti di famiglie longobarde. Uno di questi membri costruì un edificio di culto di cui non conosciamo l’intitolazione, dotandolo di vari beni. Il nucleo ebbe una sua continuità abitativa anche nel periodo normanno, mentre l’edificio sacro venne abbondonato.
02
Con gli svevi, invece, si ebbe un aumento demografico e sociale tale che fu edificata una nuova cappella intitolata a S. Bartolomeo. La chiesetta era parte integrante di un abitato sparso sito fra il vallone Colonne-Mainente e Nuvola, dove si trovava una popolazione di ceto sociale medio basso. La consistenza abitativa la deduciamo dal pagamento delle decime di “S. Bartolomeo de Capella” del 1308, che versava una somma di tarì VII e ½ . (2) Detta cifra rapportata ai vicini villaggi, Castro Montecorvino e Capialbi-S. Croce indica che la crescita della popolazione era dovuta alla migrazione da questi centri. Altro aspetto rilevante che emerge dal Ratio decimarum, è l’appartenenza di S. Bartolomeo all’ Arcidiocesi di Salerno. Successivamente con accordo tra le i due Vescovii la chiesetta passo alla Diocesi di Acerno. Durante il XIV secolo con il mutamento dell’assetti del potere locale e la decadenza di alcune vecchie famiglie il borgo si spopolò a causa dello spostamento degli abitanti verso i due nuclei di Nuvola. (3)

Note:

  1. Uno – “27 aprile 1544: I fratelli Nicola e Laudisio Zappile possiedono un terreno con vigne, olive, fichi e cerase, sito e posto in Montecorvino e proprio ubi dicitur Santo Bartolomeo seu Bracello, sopra Nubula, giusto via pubblica, Don Rainaldo de Enza, giusto vallo detto Vallone Sicco”. Il documento è inserito in un atto del 27 maggio 1553, A.S.S., notaio N. Venturello, B. 3246. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, Arcipretura di Montecorvino. Un millennio cristiano, Battipaglia novembre 2006, pp. 31-42. “30 aprile 1751 Si costituiscono il Rev. Can. Sign. D. Andrea Maria Denza del casale Molinati. E il Magn. Notar Silvestro Corrado del casale della Crogna. Il sudetto D. Andrea Maria afferma che possiede un pezzo di oliveto alquanto scaduto, ed incolto per mancanza di coltura, di capacità di due opere di buoi, oltre un poco di terra vacua, sita e posta da quella parte del casale di Nubula, confinante da sotto coll’oliveto del Beneficio di S. Francesco di Assisi dei Signori Sparano, frammezzantoci la via che esce da detto casale di Nubula , da un lato con i beni del fu Matteo Caroluccio e coll’oliveto del Sign. Matteo Jorio, da sopra con i beni del Rev. Capitolo di S. Pietro, e divide propriamente da un certo lavinaro il quale è di detto oliveto, e viene ad essere parte d’esso sopra un certo muro di fabbrica antica, e così tira quando tiene detto oliveto, dall’altro lato con un vallone o sia via pubblica antica, con i beni di Matteo e fratelli D’Arminio e col sopradetto Capitolo. Su detto oliveto vi è l’annuo censo di duc. 12, stipulato nel 1748 da detto Notare Corrado. Ora lo vende a detto Magn. Notar Corrado per un prezzo di duc. 268 e grana 43. Il detto Canonico ave rilasciato duc. 238 e grana 43, cioè duc. 200 di capitale e duc. 38 e grana 43 a soddisfazione di tutte le annate decorse, estinguendo così l’annuo censo. Il Magn. Notar Corrado consegna manualmente i restanti duc. 30”. A.S.S., notaio N. Budetta, B. 3359.
  2. “Inquisitur de valore infrascriptorum Ecclesiarum: S. Bartolomei de Cappella tarì VII ½”. Ratio Decimarum. M. Inguanes – L. Mattei Cerasoli – P. Sella, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Campania, città del Vaticano – Biblioteca Apostolica MDCCCCXLII, p. 399, n. 5896.
  3. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, Arcipretura di Montecorvino. Un millennio cristiano, op. cit., pp. 31-42.

S. Nicola

01
S. Nicola de oruto, dal toponimo o – ruto, potrebbe indicare un luogo alto rispetto all’abitato e alla via di epoca tardo antico di Nuvola. La località è stata da noi individuata nell’attuale sito di palazzo D’Arminio, luogo di altura rispetto alla via Nuvola -S. Croce -Torello.(1) La sua posizione orografica favorì la costruzione di una rocca, della cappella e di un piccolo abitato di villani che dipendevano dal milite. Tale forma abitativa è riconducibile alla prima fase della conquista normanna, periodo in cui si ebbe una notevole diffusione del culto di S. Nicola, particolarmente caro alla principessa Sichelgaita. (2)
02
La nostra casa padronale era fornita, probabilmente, da mura e da una o più torri per difesa e avvistamento ed era inserita in un sistema più vasto che garantiva al castello una difesa efficiente.
Le vie provenienti da S. Martino e S. Croce confluivano allo snodo viario che costeggiando il Mainente risaliva a S. Marco per arrivare poi al Castello. Questo accesso era presidiato dai nuclei fortificati di S. Marco, Santa Maria del Castello e S. Nicola de Oruto.
Pur non sapendo il milites fondatore di tale cappella, da un documento della seconda metà del XII secolo sappiamo che apparteneva alla famiglia de Corsellis. Matteo nel 1172 vende all’Arcivescovo di Salerno la sua porzione di proprietà. Con questo atto la chiesa salernitana (3) si inserisce nella nomina del beneficiato, ponendo le basi per un più capillare controllo dei potentati locali.
03
Purtroppo non conosciamo la consistenza patrimoniale del beneficio, dobbiamo supporre che con il passare dei decenni i beni iniziali gestiti dai rettori andarono depauperandosi con il conseguente abbandono dei contadini dipendenti.
02
La sua posizione orografica, favorì durante il ‘300 la ricomposizione del nucleo abitativo gravitante intorno all’attuale piazza S. Nicola dove insistevano, probabilmente, alcune famiglie vassalle della chiesa. La forma urbana risultava compattata in modo da costituire un borgo fortificato. Dalla via posta a valle, si inerpicava una “cupa” che arrivando ad un arco o porta immetteva nel perimetro fortificato. Questa parte posta a Nord – Est del borgo si aggiunse al preesistente nucleo normanno-svevo, formando un nuovo e più compatto abitato angioino. Durante il ‘400 la maggiore sicurezza favori un’apertura e l’ampliamento sul lato est con la costruzione di nuove abitazioni e la creazione di una nuova strada più ampia e accessibile.

Note:

  1. “Località la Tempa, confinante con la via vecchia che va allo Sottano”. A.S.S., notaio G. Abinente, B. 3321.
  2. D. Memoli Apicella, Sichelgaita tra i Longobardi e Normanni, Lancusi 1997, p. 266. D’Arminio – L. Scarpiello -V. Cardine, Chiese di Montecorvino e Gauro. Istituzioni religiose e vita sociale nella Diocesi di Acerno, Montecorvino Rovella febbraio 2018, pp. 72-108.
  3. A.D.S., Arca II, n. 81 A. Giordano, Le pergamene dell’Archivio Diocesano di Salerno (841- 1193), Battipaglia 2015, pp. 365-366. Foto del documento.

Cupa della Fontana Grande

01
Un dominus appartenente alla famiglia longobardo residente nella Sala di San Martino o proveniente da altro sito si insediò, probabilmente nell’ultimo decennio del settimo secolo, nella località Cupa della Fontana Grande, costruendo un centro dominico. Tale zona è caratterizzata dal terreno quasi pianeggiante con sorgive di acqua che consentiva l’approvvigionamento costante, favorendo la coltivazione di piante arboree e culture erbacee.
02
La Sala, posta lungo il reticolo stradale che conduceva a S. Croce e S. Martino, era costituita dall’abitazione in muratura del signore, ricoveri per animali, depositi per le derrate e palmentum. Nella immediata vicinanza del centro dominico furono edificate capanne per il seguito del signore e per i contadini addetti all’attività agricola. La presenza di una sorgente d’acqua consentiva il lavaggio dei panni, delle derrate e l’irrigazione degli orti. (1)
03
Questa struttura fu un punto di riferimento per l’intera zona fin tanto che i signori abitavano in loco. Nei decenni successivi lo spostamento della famiglia signorile determinò la decadenza politica e militare del sito. L’azienda curtense fu diretta da uno sculdascio, il quale eseguendo le direttive del signore e vigilando sui campi dominici garantiva la funzionalità e la produttività dei fondi.
A valle della sala, troviamo un antico toponimo detto Sala dei Morti, (2) il quale indicava il luogo di sepoltura dell’insediamento. La presenza di questa area cimiteriale ci fa presupporre che la sala abbia avuto una certa consistenza e continuità temporale fino, probabilmente, agli anni ’60 del IX secolo.
02
La sua posizione geografica, aperta e visibile, la resa vulnerabile all’invasione saracena, provocando la migrazione in altri siti più sicuri dei contadini e l’abbandono dell’intero villaggio. Non avendo ulteriori documentazioni, supponiamo che anche nel periodo normanno- svevo ci sia stata una continuità abitativa con la presenza di piccoli proprietari e cortisani.

Note:

  1. “Accanto all’iniziale della piccola abitazione, dell’addetto vectigal si piazzarono le capanne e qualche casa, i recinti, mentre nei pressi era condotta l’attività primaria dell’agricoltura che manteneva ferma le sue rare attribuzioni di natura sociale, come balneum per l’igiene ed il lavaggio dei panni”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico una terra un Regno I. Il Gastaldato di Rota (VIII-XI secolo), Penta di Fisciano dicembre 2008, p. 79.
  2. Inventario di beni della Chiesa di S. Pietro del 1729: Item esso Rev.mo Capitolo possiede da sotto la Sala dei Morti, e proprio nel luogo ove si dice Gianatiempo, che dalla parte di sopra vi è anco l’oliveto della Parrocchial Chiesa di S. Martino, un oliveto di piedi n. cento e tre con un piede di noce dentro, e terra vacua; quale confina da levante la sudetta Parrocchia, e l’oliveto del Pio Monte dei Morti, e la vigna di Ippolita Malfetano, da mezzogiorno, ponente e settentrione lo vallone dello Marmoro. In detto oliveto da parte di mezzogiorno vi è una fontanella detta di Gianatiempo, e vi sono alcuni piedi di cerze, e vi è la via pubblica, che divide il detto oliveto di Gianatiempo dall’altro oliveto del Capitolo volgarmente chiamato il Capitoliello, quale oliveto è sempre posseduto dal Rev.mo Capitolo”. Archivio di San Pietro di Montecorvino, Libro Campione n. 16. B. D’Arminio – N. Fortunato, Il patrimonio della insigne Collegiata di S. Pietro di Montecorvino Rovella, Salerno 2011, pp. 84-85.

Nebulano

01
Il sito di Nebulano, a nostro parere, è stato individuato nella parte alta di Nuvola presso l’attuale località Battaglione, luogo acclive e ricco di acque sorgive. La villa rustica del patrizio era posta tra la parte rocciosa della collina e i terreni degradanti a valle, fertili e vocati alle coltivazioni, costeggiato da un reticolo viario che conduceva ai i fundus vicini. Il fundus era costituito dalla casa del possessores, dalle case dei contadini, depositi agricoli e terreni coltivati. L’insediamento potrebbe risalire al II sec d.C. e durato fino al periodo latino- medievale, (1) quando troviamo nelle sue vicinanze i termini Pezza (2) e Pezza Larga.(3).
02
Dalla antica fontana di Nuvola saliva gradualmente una via detta cupa che conduceva al settecentesco palazzo Pizzuti (4) per arrivare poi all’attuale vicolo Paradiso, luogo di pendio e ricco di acque sorgive.
Lungo questa stradina, a partire dal Trecento, si formarono una o più case fortificate abitate da persone legate all’Arcivescovo feudatario. Il possesso di concessioni feudali consentì loro di raggiungere uno status economico e sociale tale da essere annoverate tra le principali famiglie dell’Università.
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Durante il Quattrocento, con l’aumento della popolazione, dalla nostra strettula si diramarono dei viottoli in direzione di S. Nicola dove furono costruiti nuovi edifici più consoni alla nuova epoca, a corte chiuse e corti aperte. Riteniamo che, in questo periodo, il nostro aggregato per popolazione e livello sociale sia diventato il principale abitato, estendendo il nome anche al vicino borgo di S. Nicola.

Note:

  1. “Dal testo del Palladio, Il latifondo italico e l’occultamento della società rurale. L’unico trattato agronomico tardoantico, quello di Palladio, si riferisce a zone, non sempre definite, dell’Italia e della Sardegna, dove l’autore aveva proprietà. Palladio, infatti, accenna a usanze a lui apprese <>, a pratiche da lui stesso sperimentate in <> o, più esplicitamente, ai suoi fondi <>. Quali indicazioni possiamo trarre, da questa fortunata circostanza, per la nostra conoscenza della situazione sociale delle campagne italiche intorno alla metà del V secolo? Il fatto è che nella prospettiva di Palladio, proprietario nell’Italia tardoantica, la distinzione fra schiavi e liberi era, ai fini dell’organizzazione del lavoro, irrilevante: il modello di possessio che egli aveva in mente era quello – noto da altre fonti contemporanee – fondato su nuclei famigliari di coloni o di schiavi che lavoravano su parcelle distinte ma tutte facenti capo alla villa. Possessiones come quella siciliana di Melania, articolata su 60 poderi coltivati da 400 servi o come le terre del suburbio romano appartenenti a Melania e al marito Pinianus, sulle quali lavoravano circa 8.000 schiavi. Dal punto di vista della organizzazione produttiva, l’attività di questi lavoratori non differiva da quella dei coloni; e anche dal punto di vista più strettamente economico, l’impiego delle due categorie doveva presentare, per i domini un complesso di fattori sostanzialmente convergenti. Sotto questo profilo, il trattato di Palladio può essere considerato come la testimonianza più importante che la tarda antichità ci abbia lasciato sul conguaglio tra coloni e schiavi”. A. Giardina, l’Italia Romana. Storia di un’identità incompiuta, Bari aprile 1997, pp. 300- 302-303. .
  2. “3 agosto 1800: Oliveto nel casale di Nuvola e proprio nel luogo denominato la Pezza seu Madama Angela, chiamato volgarmente Mainente”. A.S.S., notaio N. Maiorino, N.V. B. 3323.
  3. A.S.S., notaio A. D’Alessio, B. 3292, 3 settembre 1624.
  4. “benvero però che detto Magn. Nunziante Pozzuto , e suoi figli no possono buttare , ne far buttare così dalle finestre faciende, come da detti balconi, sporcizie, seu escremento umano , che sporgono dentro detta cupa, ed occorrendo in futuro accomodi a detta casa, sia licito a detto Magn. Nunziante farci la fabbrica scarpa, dove sarà necessario, dentro detta cupa, ed il cantone verso la casa di Filippo Coralluzzo comprata dai Recchi. E infine si è stabilito tra esse parti che la cupa sudetta debba restare nell’istesso modo, e maniera , e nel piede, che attualmente si ritrova, si è misurata, ed è di larghezza palmi 8 netti, franchi di siepe, misurati detti palmi 8 dall’attuale muro dalle case di detto Magn. Nunziante, sino alla siepe del giardino del Magn. Antonio, e di lunghezza, quanto essa contiene, e quanto riguarda alla porta della casa di detto Magn. Nunziante, che sporge, ed esce in detta cupa, possa il medesimo allargarsela a suo piacimento”. A.S.S., notaio S. Corrado, B. 3350, 7 luglio 1760. L. Scarpiello -R. Vassallo – C. Vasso, Nunziante Pozzuto: un imprenditore. Economia e rapporti famigliari nell’Università di Montecorvino, Montecorvino Rovella 2009, pp. 44-47. Testo a cura di Alfredo D’Arminio e Lazzaro Scarpiello

APPENDICI

Alfonso II per grazia di Dio Re di Sicilia, di Gerusalemme, ecc., a tutti coloro che leggeranno il presente documento, tanto presenti quanto futuri. Poiché è interesse della regia maestà mantenere la pace e la tranquillità tra i sudditi, nonché aumentare il ceto e la devozione degli uomini nobili [aristocratici], quindi [perciò] con partecipazione della magnifica e fedele università e degli uomini della città di Montecorvino della Provincia di Principato Citra ci è stato esposto e umilmente supplicato affinché ci degnassimo di confermare, per la tranquillità e la migliore distribuzione delle funzioni [o degli uffici] da stabilire per l’avvenire, un certo accordo avvenuto tra l’università predetta e i suoi abitanti, insieme alla separazione delle ventitré famiglie infrascritte, come stirpe di nobili, dal ceto del popolo, fatta approvare di comune accordo dalla predetta università, e su esso [cioè sull’accordo] acconsentire. Noi quindi vista la supplica di cui sopra, in tal senso affidata una indagine su nostro mandato, diligentemente svolta dall’egregio milite Ludovico Rodoerio, che vive [ dimora] nella detta città di Montecorvino, dalla quale con documenti e scritture autentici, nonché da testimoni degni di fede, siamo stati informati che gli uomini esaminati delle 23 famiglie dell’Atto di Rovella [segue elenco] e anche quelli dell’altro Atto di Pugliano [ segue elenco] avevano vissuto da tempo immemorabile [da lungo tempo] alla maniera dei nobili. E come uomini di stirpe nobile[ aristocratica] discendenti dalle ceneri dei Popoli Picentini, più di una volta compirono brillanti gesta d’armi, soprattutto in obbedienza al Serenissimo Re D. Alfonso, nostro rispettabilissimo Avo [nonno], al cui esercito vennero molte volte in soccorso [aiuto] negli accampamenti militari [si potrebbe tradurre ad sensum “nelle campagne militari”] tra Salerno ed Eboli, e accolsero quelli [cioè gli eserciti] nel fortilizio “Nubulano” con grande fedeltà. Prestando dunque attenzione a queste cose stabilite dalla nostra sicura conoscenza, con deliberata disposizione dei presenti confermiamo, ratifichiamo, accettiamo, approviamo, nonché elogiamo e difendiamo il menzionato accordo e la separazione delle famiglie e degli uomini nobili dai popolari [dal ceto popolare]. Inoltre difendiamo con atti giuridici la nostra confermazione, ratificazione, accettazione e approvazione, e con la nostra protezione la rafforziamo e fortifichiamo. Vogliamo e deliberiamo espressamente che la presente nostra conferma abbia inviolabile forza giuridica in tribunale e fuori [dai tribunali], e non sia soggetta a nessun velo di dubbio, nessun pretesto di impugnazione o danno di diminuzione, ma conservi sempre il suo valore giuridico. Deliberiamo che da ora e in futuro i predetti uomini esaminati e i loro legittimi discendenti possano giovarsi in modo reale e sicuro dei vantaggi e delle prerogative della nobiltà, ed essendo rimossi e separati dal ceto popolare abbiano il potere di trattare separatamente [da esso, cioè dal ceto del popolo] le attività dell’Università, ed entrare quindi a pieno diritto nel ceto dei nobili, con l’intervento del magnifico e Regio Governatore pro tempore delegato al governo della predetta città: ciò nonostante non sia diminuito in nulla il diritto dei popolari [del ceto popolare] per quanto riguarda gli incarichi e le funzioni che toccheranno al medesimo [ceto popolare] nel caso in cui lo stesso ceto popolare a quelli [cioè agli incarichi e alle funzioni] avvenga che sia eletto in pubblico parlamento*. In fede di tutti e dei testimoni presenti abbiamo fatto fare nel generale registro Regio, munito di sigillo pendente. Dato nel Castel Nuovo di Napoli per mano del Magnifico Dottore nell’uno e nell’altro diritto e nostro Consigliere Andrea Mariconda, Luogotenente dell’Illustrissimo D. Goffredo Borgia d’Aragona, Principe di Squillace, Conte di Cariati, Logoteta [cioè Segretario del Re] del Regno, Consigliere Collaterale Generale e nostro Figlio dilettissimo, il giorno 24 del mese di giugno 1494, primo anno del nostro Regno. Alfonso Secondo F. Serfilippo, Ricerche storiche sulla origine di Montecorvino nel Principato Citeriore, Napoli 1856, pp. 100-101. T *Questo passaggio del testo non esclude quindi che gli appartenenti del ceto popolare potessero rivestire cariche pubbliche, anche se poi non sappiamo se nella realtà ciò avvenisse. Ciò che forse è più interessante sottolineare è che i “nuovi nobili” avessero l’opportunità di sfruttare i vantaggi e le prerogative riservate alla nobiltà, prime fra tutte le esenzioni riguardanti i pesi fiscali dovuti al focatico, reintrodotto proprio dai re aragonesi.
Traduzione a cura di Vito Cardine.

Analisi di un sito: il Castello di Montecorvino

L’articolo, le foto, i rilievi grafici sono il sunto di ricerche effettuate sul campo, preciso che non sono un archeologo, mi reputo semplicemente un cultore della materia. Se il lettore denota degli errori, o semplicemente non è d’accordo su quello che ho scritto, sarei contento di un confronto e sempre pronto ad imparare e sicuramente propenso a ritornare sui miei passi. Spero di aver fatto cosa gradita. Arch. Gregorio Soldivieri.

01
Il castrum di Montecorvino ha svolto, in collegamento con quelli circostanti, una funzione difensiva in età Normanna, Sveva, Angioina ed Aragonese. In particolare si ricorda che il castello di Montecorvino faceva parte della linea difensiva di casa d’Angiò durante la guerra del Vespro (1282-1305).
Costruito su un terreno pianeggiante, il castello occupa un’area di circa 500 mq. ed è situato a quota 562 m. s.l.m. Sul fronte meridionale presenta un fossato in parte ancora visibile ed al centro di questo lato si apriva l’ingresso principale di cui restano riconoscibili soltanto i due piedritti dove era ricavato l’alloggiamento del portone d’ingresso e del ponte levatoio. Immediatamente ad ovest dell’ingresso è presente un varco probabilmente con funzioni di ingresso secondario.
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La zona è interessata dal crollo della parte superiore del muro principale. All’estremità orientale, accanto ad una grossa cisterna con apertura per attingere l’acqua, si riconosce un ambiente di servizio con forno. Di fronte vi è una stanza con volta a botte, divisa dalla zona di servizio da uno stretto corridoio. Oltre l’ingresso verso Ovest si riconosce una grande sala voltata. Il lato meridionale presenta una serie di finestroni ad arco gotico (forse una loggia) Fig. 1 murati in un secondo momento, mentre il lato opposto presenta una serie di arcate lesenate.
L’edificio del castello si sviluppa su tre livelli di cui: il pianterreno, al momento è in gran parte precluso dal crollo della parte superiore del muro principale, delle coperture (tegole e coppi) e delle sommità dei muri . Il piano superiore è riconoscibile per la presenza sulle pareti interne delle imposte delle volte e dei fori per l’alloggiamento delle travi di sostegno dei solai. Ad un primo esame non sembrerebbero riconoscibili aree scoperte all’interno dell’edificio, se non forse nella zona immediatamente pertinente all’ingresso principale. Proprio per la sua forma ricurva e molto allungata il castello non poteva contenere un vero e ampio cortile interno, necessario sia per svolgere le attività legate alla vita quotidiana in tempo di pace che per svolgere le attività legate all’organizzazione della difesa in caso di pericolo.
03
Questa forma particolare spiega anche la presenza non comune di numerose finestre ad arco gotico lungo tutta la facciata: per l’illuminazione. All’esterno, sia sul lato sud che su quello nord è presente un cammino di ronda. Sul lato nord è conservata una torretta merlata, di guardia e di avvistamento; sul lato sud il cammino di ronda, compreso tra il muri dell’edificio ed il fossato, è segnato all’estremità occidentale da un’altra torretta.
Nella zona Sud, subito all’esterno della prima cinta muraria, a pochi metri dal fossato e ad una quota più bassa di circa dieci metri, c’è un interessante edificio absidato, che presenta la pianta tipica della chiesetta romanica ad unica navata. Nella foto Fig. 2 è visibile la zona absidale di questa chiesa e nonostante il crollo della parte superiore di alcune mura, nella parte inferiore si può individuare la cripta con al centro una finestra molto stretta. Basta guardare il tipo di muratura della facciata (foto Fig. 3) in cui la presenza di grandi blocchi di pietra, alcuni di considerevoli dimensioni sono la testimonianza della cura avuta dalle maestranze in fase di costruzione per l’edificio sacro, cura che non si riscontra nelle altre murature del castello.
04

La chiesa è stato affiancata sul lato mare da un altro corpo di fabbrica con due ampi archi gotici a sesto acuto ben visibili ed altre aperture (in parte chiuse in seguito) che servivano probabilmente a dare luce alla chiesa. Dallo spessore delle mura e dalle fondamenta si intuisce che quest’ultimo edificio aveva anche un piano superiore, il cui tetto a unica falda si andava ad inserire verosimilmente al di sotto del tetto della chiesa per facilitare il deflusso delle acque meteoriche verso la valle. Il fabbricato ha svolto anche la funzione di contrafforte per la chiesa, mantenendo in piedi il lato valle della chiesa, quello normalmente più esposto al crollo in tutti gli edifici costruiti su un terreno con forte pendio.
In base ai dati ed alle osservazioni raccolte in situ è possibile ipotizzare uno schema insediativo di questo tipo:

  • un edificio centrale a due livelli, fortificato, dove risiedeva il “signore”, cinto da un lato dal fossato e circondato da un cammino di ronda con torrette di guardia e di avvistamento;
  • una serie di strutture pertinenti ad un altro edificio importante, ben impostato e ben costruito, con ampi (poderosi) archi ogivali, che alcuni studiosi definiscono “sacro”, in quanto avrebbero identificato la strutture di una chiesa inglobato da una più ampia cinta collegata direttamente al castello.
05
Si tratta di una vera e propria area fortificata di età medievale, databile in età normanna (XII secolo) che comprendeva, oltre all’edificio del “signore”, uno spazio ampio privo di costruzioni, destinato probabilmente ad ospitare, in caso di pericolo, sia forze armate ausiliarie che gli abitanti del territorio. Fig. 4 e Fig. 5. Così si spiega anche la presenza di una grande cisterna per l’acqua. E’ presumibile che nei periodi di pace, la gran parte della popolazione vivesse nelle campagne, in posti più vicini ai luoghi di lavoro, comunque fuori dalla cittadella fortificata. Questa ricostruzione ci riconduce in grandi linee alla stampa1 ottocentesca tratta dal “Poliorama pittoresco” Fig. 6 (“veduta attuale”) che ci restituisce molto probabilmente (con tutte le libertà che il genere si prende) un attendibile quadro di quello che allora si poteva ancora vedere del castello di Montecorvino.
Il secolare abbandono ha provocato seri danni alle strutture del castello, oggi molto fatiscenti e in gran parte pericolanti. I ruderi sono solo parzialmente visibili in quanto ricoperti e soffocati da una folta vegetazione costituita da erbe e piante infestanti, compresi veri e propri alberi ad alto fusto che sono diventati l’elemento principale che caratterizza il paesaggio (per un occhio meno attento si scorge soltanto una collina ricoperta di alberi, arbusti e di verde in generale. Le possibilità di recupero allo stato attuale sono molto limitate e quello che urge veramente è il disboscamento dell’intera area.
06
Il sito ha attirato da tempo l’attenzione degli studiosi ma sarebbe necessario effettuare scavi sistematici per una più completa comprensione del monumento, ad opera di archeologi medievali, gli unici in grado di raccogliere tutta una serie di informazioni che altrimenti andrebbero disperse. Dopo il disboscamento si potrebbe cercare di definire meglio e consolidare i muri perimetrali per evitare ulteriori crolli, liberare il fossato che nelle foto a colori che risalgono a circa venti anni fa è ancora ben visibile.
Si potrebbero recuperare alcuni ambienti del pianterreno con resti di volte che oggi risultano quasi del tutto interrati. Da quello che si riesce ad osservare, in questi ambienti sono abbastanza ben conservati anche gli intonaci originali (caduti e irrimediabilmente persi in tutto il resto dell’edificio con l’eccezione di una ristretta zona interna) Fig. 7. Il sito resta abbastanza isolato e lontano dal paese, e non vi sono vie di facile accesso. Dunque pensare a una sua fruizione risulta fin troppo arduo nel particolare contesto, se non come “luogo da visitare”, una volta creati dei percorsi sicuri nelle vicinanze e soprattutto al suo interno.

Il Castello

01

Dal Neolitico ai Normanni

Sulla sommità del monte Castello, in località Ripa dei Corvi, (1) in alcuni ripari rocciosi, sono state ritrovate tracce della presenza dell’uomo neolitico, (2) che in base al materiale ritrovato è databile all’età del bronzo. (3)
Nella parte nord orientale del piano del castello, alla base della collina della rocca, sono documentate varie fasi di insediamento. (4) La prima più antica, del VII-VI sec. a.C., era costituita da una capanna il legno e da una fossa di scavo con resti di ceramica, (5) cosa che fa presupporre un interscambio fra la popolazione indigena e il centro etrusco di Pontecagnano.
02
Nella seconda metà del IV sec. a.C., a differenza dei periodi precedenti dalla sporadica presenza umana, è documentato un piccolo villaggio a vocazione agricola. Sono stati ritrovati diversi tipi di materiale quali tegole, pietre, ceramica a vernice, pesi da telaio ed un anfora vinaria.(6) L’abitato aveva un importanza strategica per la sua posizione di facile difesa e di controllo del territorio circostante per cui non si può escludere che fosse un avamposto degli Etruschi di Amina.
La terza fase, documentata da scavi effettuati nel 1986, è rappresentata da un insediamento medievale, (7) caratterizzato da strutture abitative dove risiedevano i cortisani addetti alla coltura del piano. Il piccolo villaggio, quindi, rappresentava la ripresa abitativa tesa allo sfruttamento e alla coltivazione dei terreni e degli incolti siti sulla sommità del Locus Montecorvino. Sul periodo di costruzione e sulla consistenza abitativa della curtis non abbiamo indizi ma possiamo ipotizzare che un dominus appartenente all’aristocrazia salernitana, proprietario di vasti fondi, abbia favorito l’arrivo di contadini concedendo loro terreni con contratto a pastinato.
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Oggi il sito è privo di acqua ma è probabile che in passato vi fossero sorgenti di superficie o sotterranee, captate da pozzi o da piccole opere idrauliche. Nella parte iniziale del pianoro, infatti, ancora oggi insiste un pozzo sorgentifero, che serviva ai coloni che abitavano su un rudere posto a circa m. 50. Il luogo dove sono i resti del caseggiato era chiamato anticamente Vinea Dominica.(8) Il termine indica chiaramente che questa parte del fondo agricolo era utilizzato alla coltivazione della vite del dominus.
Contiguo al rudere, posto in elevato, vi sono, ancora oggi, i resti di un pavimento di una precedente abitazione. La sua forma rotondeggiante ci fa ipotizzare che si trattasse di una torre adibita al duplice uso di vedetta e deposito agricolo. Non è improbabile, quindi, che alla fine del X secolo questa struttura rappresentasse il centro di raccolta e di trasformazione dei prodotti agricoli, forse un palmentum, e la residenza del conductor della curtis. Il manufatto era posto su una strada di collegamento fra la Madonna dei Lari e la torre longobarda, eretta sul sito dove oggi vi sono i resti del castello. Il percorso, posto sul crinale che si sovrappone al piano, incontrava i sentieri provenienti da Occiano e, superata la torre, si congiungeva con la strada proveniente da Rovella.
04
Subito dopo la torre il tratto viario costeggiava per circa 400 metri un sistema di terrazzamenti murati per poi arrivare all’asse che collegava Rovella con Occiano. Nella parte prospiciente allo snodo viario, in direzione di Occiano, vi erano il toponimo Pozzulum (9) e la Fontana del Castello (10) a dimostrazione che nel Medioevo vi era la possibilità di approvvigionarsi di acqua. La presenza di una fontana o di un pozzo consentì sul versante sud-ovest di costruire una serie di mura su terrazzamenti in cui erano edificati piccoli rifugi in legno o in pietra dove si riversavano le popolazioni circostanti in caso di pericolo. Si trattava, con molta probabilità, di un sistema semi fortificato costruito in funzione della torre e al servizio, nella prima fase, dei serventi addetti alla custodia e poi degli abitanti che fuggivano dai saraceni. Il sito era costituito da ripari in legno o in pietra incavati nelle rocce e da una chiesa frequentata dai serventi e dagli abitati del castello. A mio parere il nucleo abitato rappresentava uno stanziamento momentaneo, atto alla prima difesa. Passato il pericolo, poi, gli uomini dei vari locus ritornavano nei primitivi insediamenti per riprendere le loro attività produttive. (11)
05
La parte signorile del castro era costituita da una torre, la quale aveva la funzione di vedetta, dimora dei serventi e comunicazione con i castelli vicini e non quella di residenza del dominus. Le fonti scritte, infatti, dimostrano che quasi sempre i membri della aristocrazia longobarda preferivano risiedere nella capitale del principato e solo raramente si spostavano nei loro fortilizi. (12) Il vicino castello di Olevano era costituito, nella prima fase, da un torrione centrale a cui si aggiunsero in seguito vari edifici e aveva quasi esclusivamente la funzione di controllo della sottostante vallata del Tusciano. (13) Non avendo riscontri archeologici che ci aiutano a identificare le fasi di costruzione e il successivo sviluppo architettonico, possiamo solo ipotizzare che durante la seconda metà del IX secolo, (14) così come avvenne per i castelli limitrofi, (15) sia stata edificata una torre (16) di avvistamento in muratura nell’attuale sito. La sua posizione centrale rispetto alle due valli sottostanti le consentiva un ottimo controllo del territorio e una immediata comunicazione con gli altri castelli su una eventuale irruzione di truppe nemiche o di orde saraceniche. Nel X secolo, con il diminuire delle scorrerie degli agareni, il castro continuò ad avere le funzioni originarie, facendo parte di quello che ormai era divenuto il principale sistema difensivo del Principato di Salerno.
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La rete dei castelli e delle torri costituita per difendere il Principato funzionò egregiamente fino alla metà del XI secolo, quando la venuta dei nuovi mercenari al servizio dei principi di Salerno, evidenziò tutta la sue fragilità e consistenza. Difatti nel 1065, Guglielmo di Principato e Guimondo de Mulisi occuparono il castello di Olevano, costringendo il nostro castello ad arrendersi o ad accordarsi. Non credo che sia stato assediato perché ai due normanni interessavano soprattutto i beni della Chiesa di Salerno. Nel settembre 1067, i due signori restituirono tutti i beni usurpati all’Arcivescovo di Salerno, (17) liberando così anche il nostro castello, il quale ritornò di nuovo in dominio di Gisulfo II.
Nel 1076, Roberto il Guiscardo partì da Melfi per assediare Salerno e conquistare definitivamente il Principato. Lungo il tragitto distrusse il castello della Rotonda di Acerno (18) e conquistò Montecorvino e il suo fortilizio. I Normanni consideravano Montecorvino un territorio ricco di beni e di abitanti e strategicamente importante per la difesa della Capitale per cui decisero di costituire un feudo da assegnare a un loro milites. (19) Il centro amministrativo e politico-militare del nuovo distretto feudale era il castrum in quanto residenza del nuovo signore.(20) La sua struttura venne radicalmente cambiata, con l’ampliamento della parte signorile e una nuova ridefinizione della parte sottostante, che divenne il luogo dove insistevano i depositi per animali e vettovaglie, le abitazioni momentanee per i serventi e i vassalli del feudo e, soprattutto, il fulcro religioso dell’area castrale.
07
Per i nuovi dominatori i castelli avevano una importanza notevole perché simbolo del potere e del prestigio raggiunto dai feudatari, oltre a essere considerati “come una sorte di caserma militare, sul tipo dei castro bizantini tardo antichi ove si stoccava il materiale militare e poteva pure asserragliarsi la gente in caso di guerra”. (21) La nuova fortezza non era avulsa dal territorio circostante, soprattutto la parte che verrà denominata Castro Montecorvino,(22) dove generalmente abitavano le famiglie più strettamente legate al nuovo dominus e perciò più fedeli e rispettose alle direttive del loro signore. (23) E bene sottolineare che se per questi gruppi parentali e di fedeli vassalli rappresentava il potere e la sicurezza, altrettanto non lo era per i vari milites e allodieri, normanni o longobardi, residenti nelle varie rocche del territorio. In questo nuovo assetto di potere, emerge chiaramente una dialettica interna fra la schiera dei fedeli al duca Ruggiero e quelle invece ligie al feudatario normanno.
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Nei primi decenni del XII secolo, risulta signore del castello di Montecorvino Fulco, il quale nel 1122 si era schierato con Giordano, conte di Ariano, capo della fazione ribelle al duca Guglielmo. (24) Non sappiamo la forma e i modi di acquisizione del feudo da parte di Fulco,, in eredità o per investitura dal Duca, ma senza dubbio era un uomo ambizioso, tenace combattente e avido di terre. Aveva, probabilmente, ingrandito il suo territorio, inglobando alcune porzioni di terre del vicino feudo di Giffoni, (25) inimicandosi sia il duca Guglielmo che la fazione normanna-longobarda, partito di cui l’ultimo Conte di Giffoni faceva parte. Nel luglio 1122, il duca Guglielmo, dopo aver sconfitto il conte Giordano, assediò il castello di Montecorvino. Fulco non riuscendo a resistere alle forze ducali si arrese, sottoponendosi di nuovo alla autorità del Duca. (26) Nonostante l’atto di sottomissione, il feudo venne smembrato e assegnato a vari militi, mentre il castello, parzialmente danneggiato, venne abbandonato per quasi due secoli.

Note:

  1. “29 luglio 1560: Marcantonio de Sparano vende a Julio Denza vari beni fra cui un oliveto sito al loco detto la Ripa deli Corvi, pertinente Montecorvino, giusto i beni di Filippi Pezuti, il detto Denza et altri””. A.S.S.. notaio F. D’Alessio, B. 3252.
  2. “Lungo la china che fiancheggia la via rotabile tra Rovella e Pugliano, verso la sommità di una sporgenza rocciosa, denominata Ripa del Corvo, si vedono tre grotte o meglio tre ripari sotto rocce. Ivi ritrovai tracce di vita umana primitiva con numeroso materiale di diversa stratificazione. Dopo un cinquanta metri, discendendo giù per la china coltivata ad ulivi, alcuni cavapietre ritrovarono una messe larghissima di bronzi, cocci e vasi”. L. Foglia, L’uomo neolitico nell’agro picentino presentata alla R. Accademia di Archeologia, lettere e Belle Arti, Napoli 1905, nuova edizione, Montecorvino Rovella 1996, pp. 9-10.
  3. “Il Foglia parla dell’esistenza in località Ripa del Corvo, di tre ripari rocciosi, da identificare con quelli ancora oggi visibili nel costone roccioso a sud-ovest del castello, all’interno dei quali rinvenne un certo numero di materiali che, in base alla descrizione, sembrerebbero da collocarsi all’età del bronzo”. T. Cinquantaquattro , Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, in AION Archeologia Antica, vol. XIV, p. 252.
  4. “L’insediamento antico si colloca sul lato orientale di un pianoro di forma stretta e allungata, delimitata lungo il margine settentrionale da due piccole alture delle quali la più orientale è occupata da Castel Nebulano, eretto in periodo longobardo. L’accesso al pianoro è possibile solo da ovest, tramite una ripida stradina naturale, mentre il pendio risulta scosceso e impraticabile sugli altri lati. L’insediamento è da porsi nella parte nord-orientale del pianoro, in una piccola conca naturalmente delimitata da rialzi del terreno, ai piedi della collinetta sulla quale in età medievale verrà innalzato il castello”. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica op. cit., pp. 251-252.
  5. “Gli interventi di scavo qui effettuati nel 1986 hanno rilevato l’esistenza di tre fasi insediative: la più antica risalente al VII-VI sec. a.C. è indiziata dal rinvenimento, in un saggio, di fori per pali e da una fossa di scarico pertinente con probabilità ad una capanna”. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, op. cit., pp. 251-252. “In un caso è stato possibile approfondire lo scavo sotto il livello del IV sec. a.C., giungendo fino a quello che, per il momento, costituisce il momento iniziale dell’insediamento: incavati nel paleosuolo argilloso sono infatti rinvenuti alcuni fori di palificazione, parte per un cavo di fondazione e una grande fossa di scarico, probabilmente pertinente a una capanna: in tutti questi elementi – come del resto sul piano archeologico ad essi connessi – è stata rinvenuta ceramica di impasto databile nel VII-VI sec. a.C.”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, in Poseidonia Paestum , Atti del XXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1987, Napoli 1992, pp. 810-813.
  6. “il villaggio medievale si sovrapponeva direttamente sullo strato di obliterazione della fase insediativa del IV sec. a.C. Di tale fase che comporta probabilmente l’urbanizzazione dell’insediamento e si concluse alla fine del secolo o all’inizio di quello successivo, sono stati rinvenuti i crolli di tegole e pietre dell’elevato e del tetto delle abitazioni e un grande muro a secco in pietra e scaglie che costituiva forse un terrazzamento. Abbondante è la ceramica rinvenuta soprattutto nei tipi di quella in uso comune; attestato è naturalmente la ceramica a vernice nera e, degno di nota, è il rinvenimento di pesi da telaio e un anfora vinaria”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, op. cit., pp. 810-813. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, op. cit., p. 252.
  7. “La fase più recente riguarda l’insediamento medievale sviluppatosi in relazione al castello e verosimilmente in relazione allo sfruttamento agricolo del pianoro. L’insediamento era caratterizzato da strutture abitative precarie segnalate dal terreno da fosse circolari e buchi per l’alloggiamento di pali in legno che dovevano costituire l’elemento portante dell’elevato. In uno di tali fori è stato rinvenuto il bordo di un vaso chiuso recante sulla spalla una incisione a crudo C.T.”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, op. cit., pp. 810-813.
  8. A.D.S. Reg. Mensa n. 33. “Il possesso signorile è domnicum, prato domnicum, terra domneca, hortus dominicus e vinea domnica. L’origine di vinea domnica è chiara: vigna del dominus o anche dipendenza specialistica dove si raccoglieva e si lavorava il vino del signore”. P. Natella, Vignadonica di Villa. Saggio di Toponomastica Salernitana, Agropoli 1984, pp. 12-13.
  9. A.D.S., Reg. Mensa n. 33. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia 2001, p. 10.
  10. “Item à Castello e proprio nel loco dove si dice l’Oliveto Grande del Capitolo, comune et indiviso anticamente con i Cappellani di Santo Pietro, et la Rettoria di Santo Eustachio nel quale oliveto il Capitolo ha la metà, et l’altra metà si dice che due parti sono dei Cappellani di Santo Pietro e la terza parte del Rettore di Santo Eustachio. Confina con l’eredi del dott. Giuseppe e Giovanni Maiorino, li beni di Domenico Maiorino, da due parti che è dalla parte di sotto, et dalla parte verso Gefuni co quello del fu Carlo Maiorino et la strata che và alla fontana del castiello, e infine verso Rovella con le Coste del Castiello”. Archivio di S. Pietro, Libro Campione n. V, anno 1634, pp. 50-148-305.
  11. “Per il rimanente il castello si depopulava in quanto i contadini tornavano a casa propria dove si sarebbe ricoltivato nei luoghi non eccessivamente manomessi”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), Salerno 2018, pp. 78-79.
  12. A. Di Muro, Le contee longobarde e l’origine delle signorie territoriali nel Mezzogiorno, in A.S.P.N., vol. CXXVIII a. 2010, p. 60. B. Visentin, Identità signorili e sistema di gestione tra età longobarda e normanna. Le terre del castrum Iufuni e la Trinità di Cava, in Archivio Normanno-Svevo, 3 a. 2011/2012, p. 38.
  13. A. Di Muro, La Piana del Sele in età normanna-sveva. Società, territorio e insediamenti, Bari 2005, pp. 54–56.
  14. “Nel IX secolo diverse furono le incursioni dei saraceni. Nell’871 vi fu un lungo assedio alla città di Salerno con saccheggi nelle zone periferiche, fra cui la vallata del Tusciano. Nell’877, i saraceni e i napoletani saccheggiarono Sarno, Mercato S. Severino, Montoro e Giffoni. Dall’ 882 ai primi decenni del X secolo, gli agareni trincerati ad Agropoli effettuarono numerose scorrerie nel Principato di Salerno. Le popolazioni locali pressate dalle continue necessità dell’assedio dell’ 871, furono costrette a costruire dei ripari murati sulla sommità del Locus Montecorvino”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 14-47
  15. A. Di Muro, La Piana del Sele in età normanna-sveva. Società, territorio e insediamenti, op. cit., p. 54.
  16. “Lo sviluppo della turris è essenzialmente legato ad un punto e crudo servizio di conservazione: ogni 1500 metri sull’alto delle colline la si piazza perché avvisi sulle avanzate nemiche, la si dota di fuochi o lenti di richiamo per notte e giorno, e quando è necessario tre o quattro soldati possono stazionarvi, e alzano intorno recinti di animali da cortile o da macellare, terrazzi per la coltura di vegetali, pozzi o cisterne per l’acqua, avamposti di pietre per la prima difesa. Sono elementi che qualificheranno in seguito il castello isolato, per collegamenti con l’abitato, aspetto che troveremo fin nel basso Medio Evo italiano allorché in caso di assedi assisteremo alla lunga, incredibile alle volte, trattativa sulla consegna o meno del castello”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 46.
  17. “I duri Guglielmo e Guimondo erano partiti alla conquista della periferia cittadina. I nostri cavalieri si fecero alle immediate porte di Salerno, come detto per assoggettare Prato cioè Pastena fin verso S. Margherita, i beni di Angellara fra l’Arbostella sul mare e la pedemontana S. Leonardo-Fuorni. Dopo Salerno entrarono nell’ex actu longobardo di Stricturia tra Siglia-Campigliano e Giffoni, a Salsanico, villaggio distrutto vicino S. Vittore di Giffoni, scendendo di là nel Sele. Raggiunsero il fiume Picentino, lo oltrepassarono per setacciare i demi attorno il fiume Asa e al suo collega idrografico Rivoalto (oggi Rialto), addirittura più piccolo dell’altro e entrante in foce al Tusciano, oltre il quale si misurarono col grande lago costiero omonimo (più o meno dove oggi è la località Lago). Risalirono le colline ed entrarono nel Sele a S. Vito, onde procedere verso il castello olevanese e la vicina grotta del Montedoro. Il papa lo seppe, e scomunicò, e dopo la scomunica i due rinsavirono e restituirono i beni al papa Alessandro alla fine di settembre del 1067 nella città di Salerno”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. Il Gastaldato di Rota(VIII-IX secolo), Penta di Fisciano 2008, pp. 192-197-198.
  18. A. Cerrone, Acerno nell’ottocento, Montella 2009, p. 291.
  19. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, La stratificazione dei toponimi nello <> tra tardo antico e il rinascimento, op. cit., p.102. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 21-51.
  20. “Una conformazione insediativa analoga a quella olevanese pare caratterizzare il territorio di Montecorvino nel Medioevo. Anche qui il centro del distretto era stato il castello che sorgeva sul Monte Nebulano, assediato ed espugnato nel 1122 dal duca Guglielmo d’Altavilla ma che risulta già distrutto al momento dell’acquisizione da parte di Romualdo Guarna. (Montem Corvinum quem olim castrum fuit et nunc dirutum est). Prima della distruzione l’insediamento era costituito da un palazzo edificato su una piccola motte artificiale, circondato da un fossato al di qua del quale si notano i resti di alcune abitazioni e una piccola chiesa, forse il nucleo di un villaggio, ma la limitata estensione dell’area lascia aperta l’ipotesi che si potesse trattare di un castrum esclusivamente signorile. Una cinta muraria (probabilmente ricostruita ai tempi della Guerra del Vespro, come si evince dalla tipologia delle torri) definiva l’area castrale”. A. Di Muro, Terra uomini e poteri signorili nella Chiesa salernitana (secc. XI-XIII), op. cit., p. 27.
  21. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 78.
  22. “Anche per Montecorvino si ripete ciò ch’è stato da tempo precisato: <>.<Castrum, castellum si applicano a un insediamento abitativo fortificato, città o villaggio…, ben di rado un castello nel senso di residenza signorile fortificata>> Strutturalmente l’abitato di Mercato Sanseverino restituisce l’idea di un aggregato antico di corti, e di piccole sale ove il primario indizio dei dintorni si subordinava piano piano alla creazione di slarghi, platee, cortili in uso ai servizi mercatali da ognuno conosciuti. Ruggiero ha a disposizione industria agraria, alimentare e commercio, e ne regola i corsi dal castello (intus ipso castro). Il 90% degli atti visti finora mostra in castello – tranne qualche caso eccezionale come il nominato priore – soldati, militi, gente di servizio, figli e nipoti. Non c’è, come suol dirsi, popolo. In poche parole, il castello vien su lì dove è sorto un micro centro vallivo urbano, o comunque demico se non vogliamo credere ad un che di costituito, e lo vediamo in tanti castelli della provincia”, P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., pp. 67- 76-77-78.
  23. “Ruggiero si sente nei suoi domini come un capofara, del tipo consegnato dalla tradizione longobarda così ben restituita da Bona, cioè il movimentista di territori suoi propri di competenza, e deteneva un ceppo clanico generale di cui era capofamiglia e al quale i membri di esso erano sottoposti, anche strettissimi, fratelli cadetti (o maggiori se avessero scelto altro tipo di esistenza)”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 78.
  24. “È sufficiente a nostro avviso ripercorrere le vicende narrate . Giordano, conte di Ariano, incontra alle porte di Nusco il duca Guglielmo, evidentemente signore anche di quella città, e lo ingiuria minacciandolo di <>. Il Duca non solo subisce l’affronto, ma assiste impotente al saccheggio della cittadina, effettuato dalla soldataglia che era agli ordini del Giordano; decide, però, di vendicarsi; all’uopo chiede aiuto al cugino Ruggero, gran conte di Sicilia, che gli fornisce armi e danaro. Il duca Guglielmo affronta quindi il Giordano, asserragliatosi nel castello di Apice e lo costringe alla resa dopo tre mesi di assedio; lo fa altresì prigioniero, ma, per intercessione di altri baroni, gli risparmia la vita. Si reca successivamente a Montecorvino presso Salerno, ove pone l’assedio a quel castello, ottenendone la resa”. A. Cerrone, Acerno nell’ottocento, op. cit., p. 256.
  25. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 19-42.
  26. “Dux ipse (Guglielmo) Montem Corvinum, Salerni proximum , obsedit; Fulco itaque, dominus castri illius, quia resitere non poterat, castellum illud ducis submisit potestati”. Falconis Beneventani Chronicon Beneventanum, ediz. E. D’Angelo, Firenze 1998 a. 1122, I. 15, pp. 68-70. “Nel luglio 1122, il Duca assediò Montecorvino, ch’è vicino Salerno e Fulco che n’era Signore, non potendolo difenderlo, lo soggettò al dominio del Duca”. A. Di Meo, Annali critico diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, vol. IX. Napoli MDCIV.

Dal Duecento al Cinquecento

01
Nella documentazione successiva del XII e XIII secolo non compare mai il nostro castello ma solo quello di Olevano. Durante tutto il ‘200, infatti, l’Università di Montecorvino continuò a pagare i castellani e i serventi del castello di Olevano, (1) e, quando occorreva, contribuiva alle spese necessarie per riparare i danni alle mura e alle torri. (2)
Dopo la disastrosa Guerra del Vespro e il cambio al vertice, avvenuto con la nomina ad arcivescovo di Guglielmo de Godoerio, la Chiesa di Salerno decise di ricostruire il nostro castello per rendere più saldo e sicuro il suo dominio. Nel 1305, 270 uomini armati provenienti da Salerno occuparono per due giorni Montecorvino alla ricerca di Pagano, vicario dell’Arcivescovo. Assediarono alcune torri e vessarono le popolazioni locali senza riguardo per l’autorità del Arcivescovo Feudatario. A capo degli armati vi erano alcuni nobili salernitani, che riducevano in povertà la popolazione montecorvinese, costringendola a vendere i propri prodotti a metà prezzo. Nel lungo atto di accusa, il giudice precisa che “senza alcun rispetto per la Chiesa e l’autorità regia e ducale, a vele spiegate li inseguirono fino a Pugliano, in territorio di Montecorvino, ponendo l’assedio a fortilizi, occupandone alcuni, tra cui quello di Fuorni, appartenente a Pandolfo Donnamusco”. (3) Da quanto riportato, quindi, non si parla espressamente del nuovo castello, per cui si può solo ipotizzare l’avvenuta ricostruzione. Diverso e più esplicito è, invece, il Ratio Decimarum, dove compare il termine Castro Montecorvino, (4) che indica chiaramente l’intero feudo e il suo castello. Ricapitolando l’assunto su quanto emerge nei due atti, si può affermare che la costruzione del fortilizio fu iniziata nei primi anni del ‘300 e conclusa nel 1307.
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Il nuovo castello, costruito dalla Chiesa di Salerno venne affidato, insieme a quello di Olevano, a un castellano unico, il quale doveva garantire la salvaguardia dei due castrum e un miglior controllo del territorio. La struttura architettonica fu ricostruita sull’impianto normanno, che nonostante i secoli si era mantenuta solida e ancora utilizzabile. Nella parte sottostante, invece, furono consolidate le mura dei terrazzamenti e rifatte nuove torri circolari. Nel 1343 il castellano unico era il napoletano Cervo Palmieri, (5) il quale aveva l’obbligo di custodire i castelli con una guarnigione, provvedere al vitto e alle armi e riparare le due fortificazioni con i proventi dei due feudi. Con la riedificazione della struttura castrense, nel vecchio nucleo di Vinea Dominica venne ricostruita la casa e la torre di guardia allo scopo di vigilare la via di accesso proveniente dal varco dei Lari e di fornire una casa alla famiglia che conduceva i terreni circostanti. La struttura abitativa favorì il riutilizzo agricolo del piano con l’impianto di vigneti, la coltivazione di seminativi e di oliveti e il pascolo di animali domestici o da lavoro.
Alla fine del secolo, durante la guerra per la successione al Regno di Napoli fra durazzeschi e angioini, il fortilizio venne occupato dalla famiglia Sanseverino. In una cronaca riportata negli annali del Buonincontro si asserisce: “Deinde misit Alberico Barbaini comitem, qui ad eius stipendia militabat contra ducem Venusinorum. Ipse vero rex Caietam rediit. Venusinus enim apud Montem Corvinum in agro salernitano, consedabat cum Ladislao Sanseverino. Comisso proelio ab Alberico sugantur, et Mons. Corvino direptus est”. (6) A. Valente, invece, dalla consultazione dei documenti della curia durazzesca, afferma che ”la tradizione storica napoletana pone l’uscita di Re Ladislao da Gaeta a capo del suo esercito nel luglio del 1392, invece essa avvenne nel luglio 1393 a causa di un errore del copista dei Diornali di Monteleone”. (7) L’esercito durazzesco fu sconfitto in terra di Otranto il 24 aprile 1392 dalle truppe dei Sanseverino, capeggiate da Venceslao Sanseverino, duca di Venosa e viceré delle Calabrie per Luigi d’Angiò. Furono fatti prigionieri i principali capi durazzeschi: Ottone de Brunswick, vedovo della regina Giovanna, Alberico da Barbiano, viceré per le Calabrie, Benedetto Acciaioli, i quali furono obbligati a pagare un forte riscatto e a non prendere le “spade per dieci anni” contro il duca di Venosa e la sua famiglia. (8) A causa della sconfitta, re Ladislao fu costretto a ritirarsi a Gaeta, mentre il duca di Venosa stabilì il suo quartier generale a Mercato Sanseverino, conquistando i paesi limitrofi, tra cui Montecorvino.
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La cronaca del Buonincontro afferma che il duca di Venosa in persona si sia “accompagnato col suo esercito a Montecorvino”, invece l’occupazione avvenne nei mesi precedenti alla riscossa di re Ladislao. La conquista di Montecorvino è documentata dopo l’agosto del 1392, quando il Vicario del Papa, Filippo Grillo nomina “senza intromissione alcuna”, il rettore di S. Matteo di Pugliano. (9) Bisogna tener presente che Papa Bonifacio IX era tutore e maggior sostenitore di re Ladislao, e quindi inviso ai Sanseverino. Difatti nel febbraio 1393, a causa della occupazione delle truppe del Venosa, fu costretto a rivolgersi a Benedetto de Ascolo, Vescovo di Acerno, affinché “provvedesse a recuperare i beni della Chiesa di Salerno”. (10) Nel dicembre 1392, intanto, la regina Margherita di Durazzo, per ridare vigore ai suoi partigiani, convocò il Consiglio del Regno a Gaeta, decidendo l’uscita in campo del giovane Re. Furono invitati nel regno vari capitani fra cui Giovanni da Barbiano, fratello di Alberico. (11) A fine giugno del 1393, le truppe di re Ladislao occuparono Capua e incominciarono la riconquista di varie località. A Giovanni da Barbiano venne dato l’incarico di affrontare Venceslao Sanseverino, accampato con le sue truppe a Montecorvino. La battaglia vide la sconfitta del duca di Venosa, che fu costretto a fuggire, mentre le truppe mercenarie del Barbiano saccheggiarono l’intero abitato. (12)
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La restituzione del feudo alla Chiesa di Salerno avvenne nel settembre 1417 con diploma della regina Giovanna II, (13) con la facoltà di nomina di capitani, castellani e giudici, i quali avevano il compito di gestire e controllare l’intero territorio di Montecorvino. Nel 1437, Giovanni Barrachijs (Barracco), di Napoli, riceve in feudo numerosi appezzamenti di terreno in varie località di Montecorvino, fra cui un castagneto a Donico, confinante con la tempa del castello, la parte superiore dell’abitato di Occiano, il “Pozolum” e la grotta di S. Oronzo, una terra a Vinea Dominca e una terra seminatoria. (14) La concessione feudale conferma che la sommità era coltivata fin dal secolo precedente e che i fondi arrivano a lambire le mura del castello, il quale viene rivisitato nella sua struttura architettonica con l’abbandono dei depositi e dei rifugi, rimanendo solo la parte signorile e la chiesa. Nella ribellione dei baroni del 1486, Montecorvino rimase saldamente nelle mani di re Ferrante, difesa dalla compagnia di Michele Corso. “Nel febbraio-marzo, Antonello Sanseverino si portò di nuovo nelle terre picentine e attaccò Giffoni. Qui subì i contrattacchi di Giovanni de Montibus e Antonello de Campobasso, passando poi ad espugnare la terra e il castello di Montecorvino e, non riuscendovi, incendiò e saccheggiò il casale di Occiano per i forniti aiuti e favori, vettovaglia e foraggio, etiam senza pagamento e legna al castellano e compagni di detto castello. (15) Le truppe del Corso erano state pagate dalla Regia Curia, (16) mentre il castellano e i serventi erano a carico degli Arcivescovi, così come si evince dai libri spesa degli anni 1486-90-97. In particolare nel 1490, per i due castelli di Olevano e Montecorvino si spesero duc. 662. Tra i fornitori dei due fortilizi risultano Accurso Pico, Gabriele Guglielmotta e Iacobello Bracale. (17)
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Nei documenti fin qui analizzati e in quelli successivi, (18) sia in ambito locale sia regionale, il nostro fortilizio viene chiamato Castello o Castello di Montecorvino e mai denominato Castel Nebulano. L’unica volta in cui viene utilizzato il termine è nel privilegio di re Alfonso II di Aragona del giugno 1494: “illusque in fortilizio Nebulano maxima fidelitate receperunt”.(19) La specifica indica chiaramente che il castello era posto sopra l’abitato di Nebulano, e non ad altri termini errati e fantasiosi. Il Serfilippo, primo storico a parlare di Castel Nebulano, (20) ha così involontariamente e in buona fede dato inizio a una “favoletta”, che ancora oggi si racconta fra gli storici e le persone che amano la storia locale.
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Nei primi anni del ‘500, il Regno di Napoli venne conquistato dal re di Spagna, il quale non fidandosi dell’arcivescovo Federico Fregoso, nominò un suo castellano per custodire i fortilizi di Olevano e Montecorvino. Il 18 febbraio 1514, l’incaricato, Francesco Peres de Anguillera, assegna la custodia del castello di Montecorvino a Gio. Luca De Luca, di Montecorvino, nominandolo vice castellano. L’incarico ha una durata annuale, con un salario di duc. 15 da dividersi in rate mensili e con l’obbligo di “ben custodire detto castello di giorno e di notte e di aprire le porte solo ad esso Anguillera castellano”. Il predetto Francesco Peres promette di fornire i serventi e il necessario per la detta custodia, dando la facoltà a Gio. Luca di poter abitare con la sua famiglia in detto fortilizio. (21)
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Nel 1528, l’Arcivescovo, ritornato di nuovo in possesso del feudo, nomina castellano dei due castri il salernitano Francesco de Morra. (22) Fu questo l’ultimo atto in cui un Arcivescovo di Salerno ha la possibilità di incaricare persone addette alla custodia dei castelli di Olevano e Montecorvino a causa della perdita dei due feudi, avvenuta negli anni successivi. Nonostante l’esproprio della titolarità e del possesso feudale, la Chiesa di Salerno fu costretta a pagare i castellani incaricati, i quali trascurarono sia la manutenzione sia la custodia delle due rocche. La loro posizione geografica, infatti, le rendeva inutili al nuovo sistema difensivo del Vicereame, oltre a essere poco difendibili di fronte alle nuove armi da fuoco. (23)
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Negli anni cinquanta, si susseguirono nell’incarico due castellani, Gorgias e Vigliegas. Quest’ultimo consegnò la custodia dei due castelli allo spagnolo Stefano Seri nel luglio del 1555. (24) Il nuovo Arcivescovo, Girolamo Seripando, nel medesimo periodo, aveva intrapreso una causa col regio fisco per ottenere l’esonero dal pagamento delle due fortezze. Nel 1556, il Prelato per accelerare l’iter giudiziario scrisse una lettera al re Filippo II d’Asburgo: “Vostra Maestà, supplicandola, voglia usare verso questa Chiesa opera di pietà, quale consiste anco giustizia dell’oppressione à molti anni tollerata di pagare trecento ducati alli castellani di Montecorvino e Olevano, li quali oltre che non sono fortezze d’importanza non si guardano et la chiesa no deve di ragione pagarli essendo stata spogliata pochi anni orsono della possessione di detta terra. Inoltre essendo morti i due castellani Gorgias e Vigliegas, Vostra Maestà può sgravare detta Mensa da questo onere perché non ne viene danno a persona alcuna”. (25) La lettere sortì l’effetto desiderato da Mons. Seripando, ottenendo finalmente, nel 1559, la sentenza in cui la Chiesa di Salerno veniva liberata dal pagamento della custodia dei castelli di Montecorvino e Olevano. (26)

Note:

  1. C. Carucci, Codice Diplomatico Salernitano sec. XIII, II, op. cit., pp. 253-413-500. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 22-23- 52.
  2. “16 settembre 1296: Il pagamento del castellano e dei serventi del castello di Olevano si prelevino sui fiscali di Olevano e Montecorvino. Item per aggiustare il castello e la torre grande, danneggiata da un fulmine, si prelevino dalle entrate di Olevano e Montecorvino”. C. Carucci, Codice Diplomatico Salernitano sec. XIII, op. cit., pp. 523-524.
  3. “steterunt in tenimento di Montiscorbini per duos dies”. C. Carucci, Codice Diplomatico Salernitano sec. XIV, Subiaco 1950. pp. 20 a 29. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., p. 23.
  4. M. Inguanes – L. Mattei Cerasoli . P. Sella, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Campania, città del Vaticano – Biblioteca Apostolica MDCCCCXLII.
  5. “Cervo Palmieri, Vicario dei castelli di Olevano e Montecorvino”. B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle Provincie Meridionali d’Italia, vol. V, Napoli MDCCCCXXIX, p. 129.
  6. L. Bonincontri, Annales 1360-1458, in L.A. Muratori, Scriptores Rerum Italicarum, XXI; Milano 1732,p. 60-61. Documento n. I.
  7. A. Valente, Margherita di Durazzo Vicaria di Carlo e tutrice di Re Ladislao, in A.S.P.N., n. 48, a. 1915, pp. 189-190.
  8. A. Valente, Margherita di Durazzo Vicaria di Carlo e tutrice di Re Ladislao, op. cit., pp. 182-183.
  9. “Uno di questi era Filippo Grillo, canonico e diacono della Chiesa Metropolita, come è documentato nel febbraio 1392. Nel mese di agosto dello stesso anno nomina rettore della chiesa parrocchiale di S. Matteo di Pugliano il chierico Guglielmo Solimene”. G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei sui vescovi (sec. V-XX), vol. I, Napoli-Roma 1976-1984, p. 378. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., p. 34.
  10. G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei sui vescovi (sec. V-XX), vol. I, op. cit., p. 380. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 34-35.
  11. A. Valente, Margherita di Durazzo Vicaria di Carlo e tutrice di Re Ladislao, op. cit., p. 183. Giovanni da Barbiano, figlio di Alidosio e fratello di Alberico, conte di Cunio e famoso capitano di ventura. M Tabanelli, Romagna Medievale. I conti di Cunio e da Bartbiano, Faenza 1972, pp. 94-95.
  12. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 34 a 36.
  13. 23 settembre 1417. G. Paesano, Memorie per servire alla storia della Chiesa salernitana, Napoli, 1846-1857, III, p. 345. G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei sui vescovi (sec. V-XX), vol. I, op. cit., p. 393.
  14. “Ottobre 1437: L’Arcivescovo di Salerno concede a Giovanni Barrachijs, di Napoli, un certo Feudo, consistente in un territorio seminatorio dicitur lo Piano del Castello, con arbori, giusto la vigna di Luca Pico, giusto oliveto del Feudo, l’oliveto di Riccie de Giorgio, giusto Castrum Montiscorbini. Un castagneto qui dicitur lo Donico, sotto detto Castro, giusto la tempa di detto Castro, giusto il castagneto di Bartolomeo Napolitano, giusto la via pubblica, giusto casale Oceani, giusto Pozulum, giusto ecclesia Santi Ronzi. Un tenimento qui dicitur Vinea Dominica, giusto via di detto Castro, giusto ecclesia Santi Petri, giusto via pubblica da due parti, giusto Russi Marino. Item un tenimento detto lo Torello, consistente in più membri, vigne, terreni seminatori, macchie di mortelle, giusto detto casale, giusto via pubblica a due parti, giusto ecclesia Santi Bartolomei, giusto vallone qui dicitur Trauso”. A.D.S., Reg. Mensa n. 33 . Foto del documento. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 54-55.
  15. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 450.
  16. “marzo 1486: A Giovanni Catalogna è stata data la somma di duc. 200 per mandarli in Montecorvino ai fanti della compagnia di Michele Corso”. N. Barone, Le cedole di tesoreria nell’Archivio di Stato di Napoli 1460-1504, in A.S.P.N., n. IX a. 1884, p. 613.
  17. “tra i fornitori dei castelli risultano Accurso Pico per duc. 24, il 3 ottobre Gabriele Guglielmotta per duc. 6, il 13 ottobre Jacobello Bracale per duc. 10. Nel 1495, l’arcivescovo spende per i su detti castelli duc. 768”. A.D.S., Reg. Mensa n. 24. Coll. K. 24. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., p. 55.
  18. “11 settembre 1544 apud castro terra Montecorvino: presa di possesso di una vigna sita ubi dicitur Castello”. A.S.S., notaio N. Venturello, B. 3245. “27 aprile 1627: fossato del castello”. A.S.S., notaio A. Meo, 3286. “18 febbraio 1692: pianello e mura del castello”. A.S.S., notaio G. Abinente, B. 3312.
  19. F. Serfilippo, Ricerche storiche sulla origine di Montecorvino nel Principato Citeriore, op. cit., p. 101.
  20. F. Serfilippo, Ricerche storiche sulla origine di Montecorvino nel Principato Citeriore, op. cit., p. 24.
  21. A.S.S., notaio D’Amore, B. 4836. Documento n. II.
  22. Documento di nomina del 15 aprile 1528. G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei sui vescovi (sec. V-XX), vol. I-IV, op. cit., 74-75.
  23. C. Carucci, Un feudo ecclesiastico nell’Italia Meridionale. Olevano sul Tusciano, Subiaco 1938, in copia anastatica del dicembre 2000, pp. 64-65.
  24. A.S.S., notaio N. Venturello, B. 3246 . documento n. III.
  25. A. Balducci, Gerolamo Seripando, Cava dei Tirreni . G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei sui vescovi (sec. V-XX), vol. I-IV, op. cit., p. 408.
  26. C. Carucci, Un feudo ecclesiastico nell’Italia Meridionale. Olevano sul Tusciano, op. cit., pp. 63-64.

APPENDICI

“Quindi (in seguito/successivamente) inviò il conte Alberico da Barbiano, che militava (combatteva) al suo soldo, contro il duca di Venosa. In verità il Re si ritirò a Gaeta. Il Venusino (quindi il duca di Venosa), infatti era accampato con Ladislao Sanseverino nel territorio salernitano, presso Montecorvino. Mossa la battaglia (iniziato il combattimento) fu sconfitto da Alberico. Montecorvino venne saccheggiato”.
Traduzione a cura di Vito Cardine
“Assegnatione della vice castellania facta dal venerabile Viro Francesco Peres de Anguillera, espagnolo, a Joe Luca de Luca de Montecorbino. 18 febbraio 1514 Si costituiscono davanti a Noi il Domino Francesco Peres de Anguillera, Castellano e Comandante in nome della Sacra Maestà Cattolica, per i castelli di Montecorbino et Olevano. Esso Peres de Anguillera afferma che per il castello di Montecorbino fece di sotto amministratore nonché vicecastellano prefato Joe Luca, presente et accettante, con la facoltà di governare bene detto castello a suo nome, come si evince da ordini espediti dalla Sacra Maestà, incominciando da detto mese di febbraio per un anno. Durante detto periodo esso Joe Luca promette di stare et abitare in detto castello co sua moglie e famiglia, sia de notte che de giorno, diligendo e custodendo detto castello e mobili che detto Castellano gli assegna, come da lista fatta dall’Egregio Notar Bernieri De Auria del casali Puliani di detta Terra e con l’assegnazione da parte di esso Francesco castellano, di buoni peditos, e questo per un anno. Deve amministrare detto castello, Joe Luca in nome suo, custodendo di giorno e di notte, aprendo le porte solo ad esso Francesco Peres de Anguillera, castellano. Gli concede il permesso di avere un ragazzo di anni 12 come servo per la sua persona. Detto Joe Luca accetta detto incarico per l’anno assegnato, rinunciando ad altri suoi negozi, ricevendo duc. 15 di salario, pagando ogni mese la rata, In caso in cui per due mesi di seguito non ha ricevuto la paga, detto Joe Luca può prelevarli dai proventi da Luca Porrelli, mastro fidatario del Chianello del castello per duc. 24, come da pubblico instrumento rogato dall’egregio Notar Sempronio Pico di detta Terra. In garanzia a detto Castellano ci sono il magistro Bartolomeo Giudice e D. … di Sparano”. A.S.S. notaio D’Amore, B. 3284.
“8 luglio 1555 In castro Terra Olibano Cora Don Caravita de Caravita di ditta Terra, giudice annuale, Joe Cola Venturello, pubblico notare, e Testi: Don Joe Cola de Dimolodede, Cesare Venturello, Scipione Venturello, Marcantonio De Cupetis di Montecorbino, qui ad hoc vocati. Consignatio Castri facto dal Magn. Ferdinando de Vigliecas, fratello e procuratore di Don Giovanni de Vigliecas, Castellano Castri Montecorbino et Olibano, in persona nobile Stefano Seri, ispano, presente et accettante”. A.S.S., notaio N. Venturello, B. 3246.