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S. Martino nel Medioevo

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Nella vecchia chiesa di S. Martino, luogo posto lungo una strada antica, fu ritrovato negli anni ’80 del Novecento una fornace per la lavorazione e cottura di ceramica locale. Dal materiale ritrovato è emerso che l’attività artigianale, anche se di tipo precario e non continuativa, ha avuto una fase di lavorazione compresa fra il bronzo finale e l’inizio dell’età del ferro. Nella parte sottostante la chiesa, in un successivo saggio, furono ritrovati “i resti di una struttura indiziata dal rinvenimento di buchi di pali”, riferibili a un periodo compreso tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. Sul prosieguo di questa piccola cellula umanizzata non abbiamo indizi che ci consentano di stabilire la sua continuità, ma il ritrovamento di frammenti databili al IV e III secolo a.C., fanno ipotizzare una probabile presenza umana anche per i predetti secoli.
In epoca romana, il nostro sito fu utilizzato per scopi agricoli e frequentato, probabilmente, come luogo occasionale di scambio di merci e prodotti agricoli. La prova di questa probabile vocazione commerciale è il ritrovamento negli anni ’70 e 80 del XX secolo di ceramica romana. Nell’ultima parte dell’impero romano, lungo l’antica strada per Salerno, fu costruita un fundus appartenente a un patrizio romano nell’area compresa fra via Taverne Vecchie e la località la Sala. Fondato, probabilmente, da un Marciano o un Marzius nel corso del III o IV secolo d.C., il sito era posto in un luogo strategico, alla biforcazione di alcune strade e sentieri che collegavano il centro agrario con i fundus di Boliano, Fontigliano, Nebulano, Pugliano, Frosano e Arpignano, con le aree agrarie di Aiello e Pezze e con la colonia romana di Salerno. La sua centralità consentì al centro dominico, con molta probabilità, una certa continuità abitativa fra il tardo antico e il periodo latino medievale, costituendo la più importante entità umana presente nel vasto territorio di Aiello-S. Martino.
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La conquista di Salerno da parte dei longobardi determinò il tracollo del vecchio impianto di potere bizantino e uno stravolgimento sociale e culturale della intera area salernitana. Nel nostro sito le continue incursioni e i saccheggi da parte del gruppo dei longobardi della fara di Piano Antico avevano già, con molta probabilità, devastato il vecchio fundus di Marzano, costringendo i suoi abitanti a rifugiarsi a Salerno o in altri luoghi.
Nel 640 con la conquista pacifica di Salerno, centro amministrativo e politico del territorio, la gran parte dei beni fondiari di S. Martino furono assegnati per diritto di hospitalitas a un dominus longobardo proveniente dalla vicina fara di Piana Antico o da altri luoghi dell’interno. Il nuovo signore longobardo, accompagnato da gruppi famigliari di exercitales, si insediò con il suo seguito, probabilmente, nel vecchio fundus di Marzano, riutilizzando parte delle strutture sopravvissute alle distruzioni e ai saccheggi precedenti.
Nel corso della seconda metà del VII e i primi decenni del VIII secolo assistiamo alla costruzione di una chiesa dedicata a S. Martino, a una lenta emigrazione di alcuni nuclei famigliari verso Aiello, e soprattutto, a una ridefinizione degli spazi abitativi del centro dominico dove, probabilmente, veniva riscossa l’imposta del portaticum, plateaticum e altri tipi di dazi esistenti nel Ducato.
Nella seconda metà del VII e per tutto L’VIII secolo, diversi nuclei famigliari longobardi si spostarono dai primitivi insediamenti per insediarsi in una vasta area pianeggiante di Aiello.
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Le continue incursioni Saracene che funestarono buona parte della seconda metà del IX e primi decenni del X secolo causarono una profonda crisi sociale e demografica in tutto il territorio e una rivalutazione dei siti di altura. La nostra Sala, posta su un piccolo rilievo collinare fu, probabilmente, di nuovo riconsiderata dalle famiglie locali. Le successive condizioni di relativa sicurezza del X secolo, permise a parte dei suoi abitanti di abbandonare la sala e di emigrare nei vicini fondi agrari di Aiello e del Tusciano, ripristinando così le vecchie peculiarità abitative e produttive.
La donazione del 919 di beni e fondi alla chiesa principesca di S. Massimo di Salerno, diede alla predetta Eingenkirchen la possibilità di acquisire altri beni e, soprattutto, costruire nel vecchio fundus romano una “condoma”, dove raccogliere e conservare i prodotti agricoli. Nel documento del 1228, al vecchio toponimo di Marzano, si aggiunse il termine casa, “altero nomine, delle Kase longobarde, abitazioni in muratura comprese in una condoma, gruppo di edifici di cui era capo lo sculdascio” di S. Massimo, rappresentante in loco dell’Abate. Il nuovo appellativo di Casa Marzana, quindi, scaturiva dal ruolo che il nuovo centro dominico aveva nel Locus di Aiello sia per i dipendenti della Eingenkirchen sia per i vari allodieri e cortisani del luogo.
Nel corso del IX secolo, probabilmente, una nuova spinta colonizzatrice nella parte circostante alla vecchia chiesa, con esclusione dell’area cimiteriale, e la presenza di alcune famiglie di contadini convinsero i vari proprietari terrieri, locali e salernitani, a ricostruire sul vecchio sito un nuovo edificio sacro. La nuova chiesa fu dedicata come quella precedente a S. Martino per rafforzare lo spirito religioso cristiano ed evitare, così, la continuazione da parte delle famiglie longobarde di antiche pratiche pagane, perpetuate da secoli dai loro antenati.
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Il nuovo sito demico, formatosi durante il X e XI secolo, era costituito da due o più curtis, poste lungo l’asse viario principale, al di sotto della chiesa, e su una nuova strada vicinale che conduceva, probabilmente, a Casa Marzana. Fra i suoi abitanti troviamo in questo periodo Sararchi e la figlia Cetre, la quale per il matrimonio con un certo Corbi di Prepezzano, si trasferisce nella casa del marito, lasciando la curtis paterna e la conduzione dei suoi fondi ai cortisani del luogo. La nostra signora risulta ancora vivente nel 1030, quando il figlio, Disio di Prepezzano, intenta una causa contro la Chiesa di S. Massimo per difendere i beni materni dagli sconfinamenti della potente Eingenkirchen. Le proprietà in questione vengono individuati nella località San Martino de Agello, quindi posti nelle vicinanze della chiesa. Nel 1034, in un successivo atto vengono localizzati ad Agello, e precisamente in San Martino, ribadendo quindi la estrema vicinanza all’edificio sacro, cosa che ci fa presupporre ancora la predominanza toponomastica del vecchio Locus. Nonostante questa appartenenza piena ad Aiello, il nostro abitato demico, insieme a quello della Sala e di Casa Marzana, era in piena espansione demografica e sociale, abitato, come detto in precedenza, da diversi nuclei famigliari attivi in diversi campi economici, proprietari di beni propri e concessionari di fondi appartenenti alla nobiltà salernitana. La conferma di questa crescita sociale ed economica è ribadita in un ulteriore atto del 1064, quando un terreno posto lungo il vallone Trauso viene localizzato a “Sancto Martino de Agello, ubi alo Trauso”.
Nel periodo normanno assistiamo all’abbandono totale del centro dominico di Casa Marzana e all’ampliamento dei vecchi siti di Pastini e curtis, posti al disotto della Chiesa di S. Martino. La crescita economica e demografica, iniziata già nel corso dell’XI secolo e consolidatasi nel secolo successivo, portò ad un ampliamento dell’edificio ecclesiastico e a una migliore ridefinizione dello spazio edilizio. In particolare, fu costruito un fabbricato con porticato, adibito, probabilmente, a casa canonica e residenza abituale per il rettore o per il cappellano istituito. Il nuovo edificio sacro assurse sempre più un ruolo di primo piano in ambito religioso e socio economico, divenendo il punto di riferimento e luogo di incontro per gli abitanti del circondario. L’importanza assunta dalla chiesa in questo periodo è testimoniata dall’estensione del nome a quasi tutto il vecchio Locus e alla scelta del nuovo feudatario di radunare i maggiorenti e boni homines di Montecorvino nell’edificio ecclesiastico. Tale scelta, fu dovuta, secondo il mio parere, per la sua centralità, la vicinanza a Salerno e, soprattutto, per la presenza di persone fedeli all’Arcivescovo di Salerno.
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Lungo l’antico tratto viario medievale che conduceva a Ferrari e Rovella, su di una piccola motta naturale, delimitata da due valloni, si insediò un bono homines, appartenente alla vecchia nobiltà longobarda. Il luogo per la sua conformazione orografica ben si prestava alla costruzione di piccoli insediamenti fortificati, avendo nelle sue vicinanze il fiume Cornea, due valloni provenienti da Nuvola, l’antica strada medievale e una sorgente superficiale di acqua. Tutte queste caratteristiche geografiche convinsero il nostro, divenuto nel frattempo milite, a costruire nella parte sommitale un piccolo edificio fortificato, costituito dalla casa signorile, stalle, depositi per gli attrezzi e dalle abitazioni dei villani.
Negli anni ’50 e ’60 del secolo l’edificio apparteneva ad Ademario Giudice, milite di Montecorvino e proprietario di un piccolo feudo allodiale, tassato nel Catalogo dei Baroni per un solo villano. Il Nostro, espressione della vecchia aristocrazia longobarda sopravvissuta alle espropriazioni e alla perdita del potere politico durante la prima fase della conquista normanna, riesce ad entrare nell’élite locale come membro autorevole della nobiltà militare e come giudice di Montecorvino. Il possesso di un piccolo patrimonio personale, ereditato dal padre, le sue competenze giuridiche e l’amicizia con l’arcivescovo Romualdo Guarna gli consentirono di essere fin dalla acquisizione del feudo di Montecorvino da parte della Chiesa Salernitana un esponente di spicco della nuova burocrazia feudale.
Nel luglio del 1168, insieme ai giudici Pietro e Guiscardo, nella chiesa di S. Martino conduce un’inchiesta sulle prestazioni e le corvée dovute dai vassalli e dagli homines militum di Montecorvino al nuovo signore feudale. Sempre nel stesso anno, per conto di Romualdo Guarna si reca con la medesima mansione nella terre di Eboli per l’inquisitio sulle prestazioni feudali dovute alla Chiesa Salernitana dagli abitanti e dai proprietari di Campolongo.
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Questa proficua attività di giudice nei feudi della Chiesa Salernitana, le conoscenze acquisite e le amicizie instaurate con gli uomini di Montecorvino ed Olevano nel corso degli anni gli fruttarono potere, profitto economico e ascesa sociale all’interno della società montecorvinese, consentendogli di accumulare un discreto patrimonio personale e di stringere rapporti e legami famigliari con il milite Goffredo De Corsellis. La lunga permanenza nell’ufficio ad Olevano lo portarono, probabilmente, più volte a frequentare il vicino santuario di S. Michele, influenzando profondamente la sua spiritualità e la sua fede verso il Signore e l’Arcangelo Michele. Per ringraziare il Santo per averlo aiutato nei suoi lunghi anni nella vita professionale e famigliare decise, con molta probabilità nell’ultimo quarto del secolo, di fondare una cappella privata dedicata a S. Michele. Costruì vicino alla sua casa un piccolo edificio religioso, dotato di altare, sepolture e di beni necessari al funzionamento della chiesa. Il privilegio di erigere la cappella vicino alla propria abitazione era dovuta all’eminente posizione sociale da lui occupata e all’amicizia con le autorità ecclesiastiche locali. La motivazione del giudice sulla fondazione vanno ricercate sia alla devozione a S. Michele sia alla volontà di assegnare un luogo fisico di unità e di appartenenza per se e i suoi discendenti.
Il villaggio di Martino sorto sui vecchi siti longobardi era posto, probabilmente, lungo la strada principale, tra il vallone del Marmore e la chiesa di S. Martino su una di vasta area in forte pendenza, nelle vicinanze del nucleo umanizzato di S. Basilio e Giovanni. Si trattava di un classico villaggio demico, aperto, costituito da una serie di case a corte chiuse, circondate da siepi e dotate di palmenti, depositi agricoli, stalloni per i buoi e, in alcuni casi, da lavelli alimentati da piccoli sorgenti superficiali o da pozzi. Il nome dell’abitato, documentato nel 1238 come casale, era Mayparti e indicava, probabilmente, la parte maggiore dei borghi umanizzati esistenti intorno e nelle vicinanze della chiesa, costituenti e parte integrante di un vasto villaggio denominato come Locus o Villa S. Martino. Le famiglie residenti appartenevano quasi sicuramente alla classe degli allodieri e boni homines ed erano composte da personaggi legati prima ai vari potentati locali e poi fedeli vassalli della Chiesa Maggiore di Salerno.
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La chiesa di S. Martino con le migliori condizioni socio economiche e la crescita demografica dell’intero villaggio divenne una delle più importanti dell’Arcipretura di Montecorvino. Le decime pagate sulla frequenza dei fedeli nel 1308 erano di tarì XII, cifra superiore ad ogni altra chiesa del distretto plebano e pari a quella di S. Tecla. Il rettore istituito era il “domino Eletto Salernitano, il quale riceveva per il suo servizio oncie III. Il cappellano addetto alla sua cura era d. Giacomo Saul che per questo incarico riceveva un salario di tarì V.
Il Trecento rappresenta per il calo demografico causato dalle continue crisi economiche, dalle disastrose epidemie di peste nera e dal dilagante banditismo il secolo d’oro dei borghi e dei siti di altura posti fra la Sala e S. Michele. Questi piccoli nuclei umanizzati erano abitati da ufficiali della chiesa, esattori delle tasse, concessionari feudali, piccoli e medi proprietari terrieri e da contadini appartenenti alle famiglie Giudicemattei, Ferraro, Rodoero o Laudiero, Cenatempori, Galluzo, Balvenuto, Adiutoro, Gentile e de Belardo.
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La fascia di territorio compresa fra la chiesa dello Spirito Santo e il cimitero, delimitata ad Est dal Cornea e ad Ovest dalla strada S. Martino-Cimitero, per le sue caratteristiche orografiche è stata interessata, con molta probabilità fin dall’XI secolo, dalla costruzione di mulini e macine ad acqua. A fine Duecento, in due atti della cancelleria angioina, sono documentati due mulini appartenenti a due personaggi della grande nobiltà del Regno, siti, secondo il mio parere, a S. Martino e precisamente nella predetta fascia territoriale. Nel corso del Trecento, le varie concessioni feudali confermano la presenza di ben tre mulini, che vengono dati in affitto a diversi ufficiali e vassalli della Chiesa di Salerno. Dalla documentazione analizzata questi importanti impianti proto industriali, erano, durante il Medioevo, prima della Mensa Arcivescovile di Salerno e poi delle famiglie De Ligorio, Laudisi e Giovannino, facoltose e importanti casate di origine vassallatiche residenti nel casale di Pugliano.
Nel corso del Quattrocento assistiamo ad un sostanziale incremento demografico e alla costruzione di nuove case lungo l’asse stradale antico, con una conformazione più consona alle nuove esigenze famigliari dei vari proprietari. La centralità e la posizione strategica dell’intero villaggio favori l’arrivo e l’insediamento di nuove famiglie appartenenti al ceto dei vassalli della chiesa, dei commercianti e degli artigiani, le quali costruirono ex novo case, botteghe, opifici e taverne. La vitalità e la dinamicità di questi nuovi personaggi crearono i presupposti per una costante e continua crescita socio economica e demografica durante tutto il ‘400, consentendo l’ampliamento del costruito e l’edificazione di nuovi e più comodi caseggiati. Questi nuclei famigliari appartenevano alle famiglie Immediata, Maurello, De Luca, Bello, Pico, Zappile, Rodoero, Olivieri, D’Arminio, De Angelo e Malfetano.

Sui Vualperto di S. Massimo: appunti per un approfondimento.

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Nel 2013 Vito Lorè, in un suo contributo dal titolo “La chiesa del principe. S. Massimo di Salerno nel quadro del mezzogiorno longobardo” (1), sosteneva che << … Probabilmente con un omonimo chierico di S. Massimo testimoniato nell’895 è da identificare il Vualperto di Bassacio, residente a Siano, nei fines rotenses, che nel 909 donò a S. Massimo i beni ereditati dal fratello Gattone e dieci anni dopo tutti i suoi beni, a Nocera e nel territorio del Tusciano …>> (2). L’analisi dei documenti richiamati da Lorè però ci porta a confutare tale opinione e a riconoscere negli attori e sottoscrittori degli atti almeno due Vualperto differenti e in via ipotetica forse un terzo. Nel primo documento dell’895 (3) figura come sottoscrittore-testimone un tale Vualperto presbitero non meglio identificato, ma che faceva sicuramente parte del clero della chiesa. Nel secondo documento del 909 (4) i Vualperto sono chiaramente due (cosa stranamente sfuggita a Lorè), in quanto compare Vualperto chierico, attore della donazione, figlio di Bassacio, abitante a Siano, e Vualperto presbitero, che anche in questo caso sottoscrive come testimone l’atto. La differenza tra i due è provata dalla diversa designazione (l’uno è chierico, l’altro è presbitero) e dalle sottoscrizioni, dove troviamo il “signum manu walperti clerici” e, più sotto, il segno di croce seguito da “ego wualpertus presbiter”: quindi due “sigle” diverse. Nel terzo atto del 919 (5) ritroviamo un solo Vualperrto di cui non conosciamo la paternità, né tantomeno la provenienza, il quale faceva parte del clero di S. Massimo, a cui dona alcune sue proprietà.
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Ora, dato per scontato che nel 909 sono identificabili inequivocabilmente due differenti Vualperto, cosa possiamo ipotizzare sul Vualperto dell’895 e su quello del 919? È possibile identificarli con uno dei due del 909 o è addirittura un terzo personaggio? Innanzitutto va fatta una considerazione preliminare. Nella donazione dell’895 si fa una distinzione netta tra quelli che sono i “presbiteros” e i “clericos” (6) della chiesa, ad indicare una gerarchia che prevedeva una sorta di “carriera”: si entrava come chierici, si diventava eventualmente presbiteri e magari qualcuno veniva nominato abate. Non a caso il Leomario chierico e testimone nell’895 lo ritroviamo sottoscrittore anche nel 909, ma col nuovo titolo di presbitero. E presbitero è il Vualperto dell’895 e del 909, che potrebbe essere dunque la stessa persona.
Sul Vualperto del 919 si possono avanzare varie ipotesi: 1) è lo stesso Vualperto dell’895 e del 909; 2) è il chierico della donazione del 909 (come ipotizza Lorè), divenuto nel frattempo presbitero; 3) è un altro Vualperto che fa donazione alla sua chiesa di appartenenza. Quale delle tre?
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La prima ipotesi sembra la meno plausibile: sarebbe la donazione di un presbitero ormai anziano, presumibilmente tra i 50 e i 60 anni, che avrebbe dovuto assolvere a tale “obbligo” in tempi precedenti. Nel testo inoltre è detto che Vualperto, tra le altre cose, dona anche quel che ha ereditato dai “parentum”, termine che potrebbe indicare i genitori, come nel latino classico: ciò farebbe pensare ad una figura di una persona non in età avanzata, come invece dovrebbe essere il Vualperto dell’895, già presbitero e primo dei firmatari (7).
a seconda ipotesi potrebbe essere valida: Vualperto, all’ingresso nella chiesa, porterebbe in “dote” una parte del suo patrimonio, donando il restante dopo un decennio circa. Ma vi sono comunque delle riserve anche in questo caso. Prima di tutto nel 909 il chierico Vualperto non specifica che la donazione è fatta per l’ingresso nel clero di S. Massimo: potrebbe essere quindi una semplice donazione “pro anima”. Inoltre le proprietà donate attraverso i due atti si trovano in zone differenti del Principato, le prime a nord, le seconde a sud della città di Salerno. Che una famiglia sufficientemente ricca avesse proprietà anche lontane tra di loro è assolutamente probabile. Quello che però nel nostro caso desta qualche dubbio è che le due donazioni interessano ognuna un solo ambito territoriale: la prima il territorio di Siano, la seconda terreni ubicati in località vicine tra loro, nel territorio “omogeneo” Montecorvino-Tusciano-Eboli (8). A mio avviso, la scelta di Vualperto di donare le proprietà in due momenti diversi risulta alquanto anomala, a meno di supporre che abbia ottenuto il diritto sui beni in due occasioni successive. L’unico elemento che potrebbe legare i due atti è il termine “parentum”, il quale se non indica solo i genitori, come abbiamo supposto sopra, ma anche altri parenti stretti (nonni, fratelli, zii, ecc.), nella seconda donazione si potrebbe ravvisare una “riconferma” della cessione dei beni ereditati nel 909 dal fratello Gattone. Al netto di tali ragionamenti ritengo comunque l’ipotesi valida, come già detto.
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La terza ipotesi, a rigor di logica, non presenta difficoltà storiche e/o interpretative: per tale motivo, non può essere provata, ma non va nemmeno esclusa.
Note
  1. In Ricerca come incontro. Archeologi, paleografi e storici per Paolo Delogu, G. Barone, A. Esposito, C. Frova (a cura di), Roma, 2013, Viella libreria editrice, pp. 103-124.
  2. Idem, p. 110.
  3. CDC, I, 125, pp. 159-160.
  4. CDC, I, 136, pp. 175-176. Documento I
  5. Così credo si debba leggere il vocabolo “cleros” del testo.
  6. Negli atti notarili medievali era prassi che i firmatari seguissero una scala discendente dal personaggio più importante, per rango o professione oppure età, a quello meno significativo. In questo caso il nostro Vualperto è il primo presbitero che sottoscrive, quindi presumibilmente il più anziano. Non a caso nel documento del 919 il primo firmatario è un notaio, cui segue un semplice laico.
  7. La località “agellu”, che Lorè evidentemente colloca nel territorio di Nocera, in quanto numerosi atti del CDC riportano tale toponimo in finibus Nuceriae, va secondo me identificato con l’omonima località presso Montecorvino, anch’essa ricordata in documenti del CDC: acquista così omogeneità la donazione del 919 con territori ubicati nella stessa zona.
A cura di Vito Cardine

S. Martino Vecchio.

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Nella vecchia chiesa di S. Martino, luogo posto lungo un strada antica, frequentata, probabilmente, da pastori e contadini della zona, fu ritrovato negli anni ’80 del Novecento una fornace per la lavorazione e cottura di ceramica locale. Dal materiale ritrovato è emerso che l’attività artigianale, anche se di tipo precario e non continuativa, ha avuto una fase di lavorazione compresa fra il bronzo finale e l’inizio dell’età del ferro. (1) L’arrivo di popolazioni villanoviane e la fondazione del centro di Amina (Pontecagnano) (2) determinò la fine della esperienza proto industriale e la trasformazione del piccolo nucleo insediativo in un micro villaggio a vocazione agricola pastorale. Nella parte sottostante la chiesa, infatti, in un successivo saggio furono ritrovati “i resti di una struttura indiziata dal rinvenimento di buchi di pali”, riferibili a un periodo compreso tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. (3)
La presenza di una attività artigianale e di un piccolo nucleo abitato era dovuto alla sua posizione geografica. Il sito, infatti, era posto, con molta probabilità, lungo un antico tratturo, nelle vicinanze di una sorgente perenne, denominata Pozzillo, affiorante nella parte sottostante la chiesa, lungo il corso del vallone Marmore. (4) Sul prosieguo di questa piccola cellula umanizzata non abbiamo indizi che ci consentano stabilire la sua continuità, ma il ritrovamento di frammenti databili al IV e III secolo a.C., (5) fanno ipotizzare una probabile presenza umana anche per i predetti secoli.
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In epoca romana, il nostro sito fu utilizzato per scopi agricoli e frequentato, probabilmente, come luogo occasionale di scambio di merci e prodotti agricoli. La prova di questa probabile vocazione commerciale è il ritrovamento negli anni ’70 e ‘80 del XX secolo di ceramica romana. Nell’ultima parte dell’impero romano, lungo l’antica strada per Salerno, fu costruita una piccola area cimiteriale con un sarcofago in pietra (6) da parte di un proprietario del luogo, abitante, con molta probabilità nelle immediate vicinanze. Secondo il mio parere la zona cimiteriale con il relativo sarcofago era posta nella parte Sud-Est della chiesa di S. Martino e solo nei secoli successivi il manufatto in pietra, utilizzato come tomba dal possessores, fu trasferito nel luogo del ritrovamento degli anni ’70. Negli scavi effettuati nel 1983, infatti, furono trovate diverse sepolture terragne, di cui una alla cappuccina, databili al VII secolo d.C. con relativo corredo funerario (brocchetta biansata decorata a bande rosse disorganiche). (7) Il nostro sarcofago, fu probabilmente profanato dai nuovi arrivati e utilizzato dal nuovo dominus della Sala come sua ultima dimora. (8) La vicinanza di questo pietra tombale e l’utilizzo da parte delle superstiti famiglie romane del luogo, convinsero il nuovo signore longobardo a costruire nella corso della seconda metà del VII secolo d.C., una chiesa dedicata a S. Martino. (9) L’intento del dominus longobardo era di convincere i suoi consanguinei a seppellire i propri cari nell’area cimiteriale romana e avvicinare così le etnie, latina e longobarda, nella vita e nella morte. (10) L’edificio sacro fu quasi sicuramente dedicata a S. Martino, santo antiariano per antonomasia, (11) per suggellare la conversione al cristianesimo del suo popolo, abbandonando la vecchia eresia ariana. La conversione di parte di questo piccolo gruppo longobardo era dovuto quasi sicuramente all’opera svolta da Barbato, vescovo di Benevento, presso la corte ducale e nei vari insediamenti farmannici del territorio. (12) Il desiderio del dominus della sala, a mio parere, fu realizzato solo in parte a causa dell’emigrazione dei suoi discendenti che causò l’abbandono totale della chiesa.
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Nel corso del IX secolo, probabilmente, una nuova spinta colonizzatrice nella parte circostante alla vecchia chiesa, con esclusione dell’area cimiteriale, e la presenza di alcune famiglie di allodieri e cortisani convinsero i vari proprietari terrieri, locali e salernitani, a ricostruire sul vecchio sito un nuovo edificio sacro. (13) La nuova chiesa fu dedicata come quella precedente a S. Martino per rafforzare lo spirito religioso cristiano ed evitare, così, la continuazione da parte delle famiglie longobarde delle antiche pratiche pagane, perpetuate da secoli dai loro antenati.
Il nuovo sito demico, formatosi durante il X e XI secolo, era costituito da due o più curtis, poste lungo l’asse viario principale, al di sotto della chiesa, (14) e su una nuova strada vicinale che conduceva, probabilmente, a Casa Marzana. Il nuovo insediamento, come detto prima era abitato anche da piccoli proprietari terrieri. Fra questi emerge la figura di Sarachi, vissuto nella sua curtis, posta nelle vicinanze di Casa Marzana, nell’ultimo quarto del X e i primi decenni dell’XI secolo. Alla sua morte la casa e i beni furono ereditati dalla figlia Cetra, sposata con un certo Corbi di Prepezzano, la quale, con molta probabilità, si trasferì nella casa del marito, lasciando la gestione della curtis paterna ai cortisani del luogo. La nostra signora risulta ancora vivente nel 1030, quando il figlio, Disio di Prepezzano, intenta una casa contro la Chiesa di S. Massimo per difendere i beni materni dagli sconfinamenti della potente Eingenkirchen. Le proprietà in questione vengono individuati nella località San Martino de Agello, quindi posti nelle vicinanze della chiesa. (15) Nel 1034, in un successivo atto vengono localizzati ad Agello, e precisamente in San Martino, (16) ribadendo quindi la estrema vicinanza all’edificio sacro, cosa che ci fa presupporre ancora la predominanza toponomastica del vecchio Locus. Nonostante questa appartenenza piena ad Aiello, il nostro abitato demico, insieme a quello della Sala e di Casa Marzana, era in piena espansione demografica e sociale, abitato, come detto in precedenza, da diversi nuclei famigliari attivi in diversi campi economici, proprietari di beni propri e concessionari di fondi appartenenti alla nobiltà salernitana. La conferma di questa crescita sociale ed economica è ribadita in un ulteriore atto del 1064, quando un terreno posto lungo il vallone Trauso viene localizzato a “Sancto Martino de Agello, ubi alo Trauso”. (17)
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  1. “La fase I è presente nel solo saggio B2 ed attesta la frequentazione, funzionale ad attività artigianali, nell’età del bronzo finale prima età del ferro. Le unità stratigrafiche ad essa riferibile rappresentano una fornace per la lavorazione della ceramica ed i relativi riempimenti accumulatisi sia nel corso del funzionamento che al momento del disuso e del definitivo abbandono. La fornace si è conservata solo parzialmente in quanto interessata sia dal taglio della trincea di fondazione del muro medievale sia dal recente sbancamento”. A. Iannelli, Scavo di emergenza a S. Martino Vecchio di Montecorvino Rovella. Relazione preliminare, in A. Medievale, XI, 1984, p. 353.
  2. “L’attuale Pontecagnano fu interessata a partire dall’età del ferro da gruppi di cultura villanoviana, avente, sin dal IX secolo a.C., funzioni e ruolo di coordinamento e raccordo fra il nascente mondo etrusco e le popolazioni indigene site nell’interno”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia 2001, p. 86.
  3. “Un successivo scavo nel 1988, al di sotto della chiesa, furono trovati i resti di una struttura indiziata dal rinvenimento di buchi di palo, la cui cronologia venne posta al momento dello scavo tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C.”. T. Cinquantaquattro, L’Agro Picentino e la necropoli di località Casella, in Pontecagnano II, Napoli 2001, p. 110. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, Arcipretura di Montecorvino. Un millennio cristiano, Battipaglia novembre 2006, p. 91.
  4. “Tra le varie circostanze che hanno favorito l’insediamento a San Martino Vecchio, sicuramente c’è da annoverare la presenza del <>. È una sorgente molto vicina a San Martino Vecchio, nel vallone Marmore, dimenticata da tutti”. D. Moccia, Un teatro a cielo aperto. Creatività, arte spirito imprenditoriale e.. mestizia a San Martino, sito Mio Libro, stampato in Italia presso Thefactory 2021, p. 15.
  5. “Fase I: L’unica fase sicuramente riferibile ad un frequentazione premedievale. Mentre, infatti, una presenza di frammenti a figure rosse, di vernice nera (sia di IV che di III a.C.) e di ceramica romana (pareti sottili, sigillata italica e chiara A e D), documentano una frequentazione premedievale di più ampia cronologia, non abbiamo, però, incontrato tracce di un relativo stanziamento stabile”. A. Iannelli, Scavo di emergenza a S. Martino, op. cit., p. 353.
  6. “Connola della Madonna: è una specie di sarcofago utilizzato, forse per secoli in prossimità del ponte sul torrente Marmore, come abbeveratoio per i cavalli prima di affrontare la salita della vecchia strada che conduce tuttora a San Martino Vecchio. Questo sarcofago è stato collocato nel cortile scoperto di Santa Sofia a Rovella”. D. Moccia, Un teatro a cielo aperto. Creatività, arte spirito imprenditoriale e.. mestizia a San Martino, op. cit., p. 10.
  7. A. Iannelli, Scavo di emergenza a S. Martino, op. cit., p. 357.
  8. “Viene tramandata l’antica leggenda della chioccia dalle uova d’oro posta all’interno del sarcofago che la tradizione locale chiama <>”. G. Paraggio, Antichi luoghi di culti. Chiese, chiesine, cappelle e conventi del Salernitano, Salerno 1993, p. 111. La leggenda potrebbe avere qualche fondamento per il ritrovamento di un probabile ricco arredo del faraman o dominus longobardo seppellito nel sarcofago. Negli scavi eseguiti a Trezzo sull’Adda, fu ritrovata “una necropoli riferibile grosso modo alla fine del VI – prima metà del VII secolo, con un corredo funerario e dell’abbigliamento funebre che consentono di riferire queste sepolture all’età longobarda e di attribuirle, almeno in alcuni casi, a personaggi socialmente rilevanti. Delle venticinque inumazioni messe complessivamente in luce, si ci limita a fornire qualche cenno su due. Esse presentano infatti caratteristiche particolari che meritano di essere almeno segnalate. Si ricorda tuttavia che altre tombe, grazie alla presenza della crocetta d’oro, rimasta nel riempimento nonostante la violazione, possono essere attribuite a membri dell’aristocrazia longobarda”. S. Lusuardi Siena, La necropoli longobarda in località Cascina di S. Martino nel quadro dell’insediamento altomedievale a Trezza sull’Adda (Milano), in G.P. Brogiolo e L. Castelletti, Il territorio tra tardoantico e alto medioevo. Metodi di indagine e risultati, Firenze 1992, pp. 136-140. “L’aver accennato alla regina Teodolinda ci permette una piacevole disgressione sulle tradizioni popolari dei picentini: circola infatti in questa area territoriale e nelle zone limitrofe una leggenda che racconta di una preziosa chioccia aurea accompagnata dai suoi pulcini d’oro anch’essi, abitante nei recessi sotterranei inviolabili. Generazione di uomini si sono cimentati nell’impresa di catturarla, ma ogni tentativo è risultato vano: Per averla è necessario un inaccettabile sacrificio umano. La presenza della mitica chioccia è segnalata in ambiti territoriali diversi. Fin qui la leggenda, ma essa potrebbe collegarsi alla famosa opera di oreficeria longobarda realizzata nei laboratori dell’Italia settentrionale, la chioccia d’argento dorato accompagnata da sette pulcini, facente parte del tesoro che, secondo la tradizione, la regina Teodolinda volle donare alla basilica costruita in Monza; tra le varie ipotesi sul suo significato, si è pensato che l’opera volesse simboleggiare l’unità del Regno Longobardo (la chioccia) nella pluralità dei Ducati (i pulcini) o un simbolo augurale di fecondità, ma appare più probabile che nella chioccia si sia voluto rappresentare la Chiesa di Roma. Quello che preme sottolineare è come l’immagine di ricchezza che l’oggetto rifletteva e che doveva essere ben noto in tutto il territorio longobardizzato, sia sopravvissuto nell’immaginario collettivo, naturalmente rielaborato in molteplici occasioni, fino ai nostri giorni, fatto che lascia intravedere quale traccia e quanto pregnante abbia lasciato la presenza longobarda nei nostri territori”. A. Di Muro – B. Visentin, Attraversando la Piana. Dinamiche insediative tra il Tusciano e il Sele dagli Etruschi ai Longobardi, Salerno 1994, pp. 49-50.
  9. “Nonostante si sia l’impossibilità di collegare direttamente questa fase costruttiva ad una precisa cronologia si ritiene plausibile l’attribuzione della struttura, costruita con materiale litico in calcare non squadrato, all’epoca medievale e precisamente, alla prima fase costruttiva della chiesa di S. Martino. La lettura della sezione di sbancamento ha infatti restituito una prima fase muraria con relativo piano di utilizzazione, sul quale si è raccolto un deposito di terreno a segnare un momento di crisi dell’edificio religioso. La chiesa assolse molto presto la cura animarum applicando lo jus cimiteri. Se, infatti, le fonti documentarie citano S. Martino solo agli inizi dell’XI secolo, la documentazione materiale, pervenuta non da saggi archeologici, ma dalle opere di sbancamento, ha accertato la sicura funzionalità del complesso religioso già nel VII secolo d.C.”. A. Iannelli, Scavo di emergenza a S. Martino, op. cit., pp. 354-357. “La scoperta di numerose chiese rurali, o loro probabile tracce, risalenti ai secoli VI e VII lasciano intuire una diffusa ripresa dell’attività agricola organizzata che deve essersi accentuata particolarmente a partire dal VII secolo. Tra questi insediamenti andranno distinti quelli di nuova fondazione, che se pure in numero fin qui inferiore rispetto i villaggi risorti sulle antiche ville romane, indicano il tentativo di ampliare le terre arabili e la ricerca di quel tanto che fosse sufficiente alla sopravvivenza di piccole comunità”. P. Peduto, La chiesa e la necropoli di S. Lorenzo di Altavilla, Salerno 1984, p. 36. “La più antica testimonianza del culto cristiano nel territorio dell’Arcipretura di Montecorvino è da ascrivere alla chiesa di S. Martino. Fu eretta nel VII secolo, probabilmente, per celebrare e diffondere la conversione del Signore longobardo e del suo seguito dall’arianesimo al cattolicesimo. L’ipotesi ci è suggerita dalla sua stessa posizione, in quanto posta a poca distanza dalla Sala in una zona cimiteriale. I Longobardi superarono la concezione del cimitero come luogo di morte con la visione escatologica, posizionando al centro dell’area di sepoltura un luogo sacro dedicato a S. Michele oppure a S. Martino. Quest’ultimo come malleus haereticorum per antonomasia, serviva come monito alle popolazioni germaniche a non ricadere nell’eresia ariana o in pratiche idolatriche o pagane”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, Arcipretura di Montecorvino. Un millennio cristiano, op. cit., p. 6.
  10. “La seconda fase ebbe inizio con l’arrivo dei Longobardi e la successiva occupazione del territorio. La penetrazione iniziale, con la costituzione delle fare di Farinola-Farmano e Faragna, nonché le epidemie del VI secolo, non scompaginarono la struttura antropica ereditata dal Tardo Antico. In questo periodo si assiste alla divisione tra le due etnie, quella germanica dei Longobardi e quella italica”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, La stratificazione dei toponimi nello <> tra il Tardo Antico e il Rinascimento, in V. Aversano, Studi del Car. Topon. St. Laboratorio di cartografia e toponomastica storica, N. 1-2, maggio 2006, p. 103.
  11. “A sud di Trezzo dunque la presenza della fara autorena rappresenta già di per sé un fatto emblematico del ruolo svolto in questo settore dell’Adda nella storia dell’insediamento longobardo. Anche il titolo di S. Martino, santo antiariano per eccellenza, potrebbe trovare una sua logica proprio nella volontà di qualche convertito di esaugurare un luogo pagano. Esaugurazione da non vedere nel senso di una cancellazione radicale del valore pagano del luogo, ma in quello di un <>”. Lusuardi Siena, La necropoli longobarda in località Cascina di S. Martino nel quadro dell’insediamento altomedievale a Trezza sull’Adda (Milano), op. cit., pp. 144.
  12. “Nel 1983 scavi condotti dalla Soprintendenza archeologica hanno riportato alla luce nella zona di S. Martino Vecchio, nel comune di Montecorvino Rovella, un edificio ecclesiastico risalente al VII secolo, molto probabilmente i resti dell’antica chiesa di S. Martino intorno alla quale si sviluppò un luogo: i dati archeologici e la significativa dedicazione al vescovo di Tours che più di ogni altro in Occidente fu acerrimo avversario dell’eresia ariana, di cui nei primi tempi del loro insediamento in Italia i Longobardi si proclamavano seguaci, possono essere posti in relazione con l’abbandono di tale eresia da parte dei Longobardi, avvenuta in Italia meridionale grazie all’azione del vescovo beneventano Barbato la cui opera evangelizzatrice coincide con la spedizione in Italia meridionale dell’imperatore bizantino Costante II nel 663: come mise in evidenza il Bognetti dovette accadere nell’Italia settentrionale longobarda, forse anche in questa landa dell’antico Ager picentinus la conversione al cattolicesimo dei dominatori Longobardi fu salutata con l’edificazione di una chiesa dedicata al Malleus haereticorum per antonomasia”. A. Di Muro – B. Visentin, Attraversando la Piana. Dinamiche insediative tra il Tusciano e il Sele dagli Etruschi ai Longobardi, op. cit., pp. 52-53.
  13. “Seguì la costruzione di un secondo livello pavimentale che segna la ripresa o una ristrutturazione edilizia della chiesa. Sul muro perimetrale nord viene, infatti, costruito un secondo perimetro in una tecnica costruttiva nettamente differente. La struttura 2 e B2 viene ad essere, in via ipotetica, quanto resta di un complesso annesso alla chiesa e del quale si ignora lo sviluppo planimetrico e la destinazione funzionale. Con riferimento alle fonti storiche è possibile trarre ulteriori elementi di puntualizzazione. Se per i primi decenni dell’XI secolo veniamo informati della corrispondenza chiesa-territorio è proponibile una ripresa del complesso già nel corso del X secolo. I secoli VIII e IX vengono così a proporsi come il possibile momento di crisi di S. Martino”. A. Iannelli, Scavo di emergenza a S. Martino, op. cit., pp. 356-357-358.
  14. È molto probabile che la località le Curti, documentata nel 1640 fra i beni della chiesa parrocchiale di S. Martino, fosse ubicata poco al disotto della chiesa. “Nel 1640 Gio Battista Malfetano e Stefano Malfetano possiedono un terreno alle Curti, in casale S. Martino, giusto via pubblica, vallone sicco e Jacomo De Dina e rende alla chiesa parrocchiale di S. Martino alcuni carlini”. Ulteriore prova potrebbe essere la località Piedi di Pastini, posta vicino al vallone Marmoro. “30 agosto 1556: Il Notar Mercurio Pico vende a Bello Guerra un oliveto sito nel casale S. Martino, ubi dicitur i Piedi di Pastini, confinante con Alessandro De Angelo, heredi di Nicolai Guerra, Heredi di Jacobetti Rodoero, vallone Marmoro et altri. A.S.S. notaio N. Venturello, B. 3246.
  15. C.D.C., V, p. 185, febbraio 1030. Documento II.
  16. C.D.C., VI, p. 6, luglio 1034. Documento III.
  17. “Nel marzo 1064, Rottelgrimo, Conte e Giudice dona alla chiesa di S. Matteo Apostolo e S. Giovanni Apostolo ed Evangelista di Salerno una terra vacua, sita in loco Sancto Martino de Agello ubi alo Trauso, confinante ad occidente con l’acqua del Trauso, ad oriente la via pubblica e con l’altra proprietà del detto Conte e Giudice”. C.D.C, VIII, pp. 297-298-299.

La Peza del Mulino e Pezza

01
Nella parte sottostante al vecchio fundus, lungo la strada antica per Olevano (1) e sui due lati del sentiero (2) che conduceva ad Arpignano e al monte Foresta, (3) è documentato la Peza del Mulino, area agraria del fundus Marzano. Altro luogo avente le stesse modalità insediative e produttive era Pezza, sito al disotto dell’attuale cimitero, sui due lati del Cornea, all’incrocio di antichi sentieri e strade che conducevano ad Olevano, Frosano, Casa Marzana ed Aiello. (4) Nei due siti, con molta probabilità nel periodo latino medievale, si costituirono due aree agricole dove si insediarono alcune famiglie, dipendenti dal possessores di Casa Marzano il quale concesse loro varie porzioni di terreni. La posizione relativamente nascosta, la presenza del fiume e di sorgenti di acqua favorì, probabilmente, una certa continuità abitativa fino all’arrivo dei longobardi.
02
Note
  1. “Inventario dei beni della famiglia Maurello del 23 maggio 1598: Una terra nel casale S. Martino, ubi dicitur la Peza del Mulino, giusto via pubblica a due parti, i beni dell’Ecclesia di S. Martino, Desiderio Morretta, Paolo Invidiata, et altri”. A.S.S., notaio F. Maiorino, B. 3270.
  2. In una stipula del 28 febbraio 1718, la località era posta sopra “l’arcatura del mulino”. A.S.S., notaio A. Satriano, B. 3332.
  3. “7 agosto 1728: Giulia Punzo, vedova del fu Domenico Malfetano e madre tutrice dei suoi figli, vende al Sign. Andrea Denza un oliveto ereditario del detto fu Domenico, consistente in otto piedi grandi e sei scalzoni, sito in pertinenza del casale di S. Martino, nel luogo detto la Peza del Mulino, confinante con la via pubblica da sopra, la cupa per dove si va alla macina, l’oliveto di Tomaso Malfetano da oriente e l’altro oliveto di detto Sign. Andrea, redditizio per annue grana 5 al Convento della SS.ma Annunziata di S. Martino, per un prezzo di duc. 51,5”. A.S.S., notaio G. Abinente, B. 3322.
  4. “11 maggio 1718: Per il matrimonio di Aurelia De Rosa, alla sposa viene assegnato in dote un oliveto con querce et altri alberi fruttiferi, sito nel casale S. Martino e proprio nella terra nominata la Pezza, all’incontro della Macina di Piedi, giusto il fiume Cornea, via pubblica, i beni del Reverendo Capitolo di S. Pietro di Rovella dal quale divide tramite una pietra grande a dirittura del fiume Cornea”. A.S.S., notaio A. Satriano, B. 3333.

Miracoli operati nel casale di S. Michele di S. Martino da S. Filippo Neri

01
Alla fine del 1640 vennero portate nella chiesa di S. Michele le reliquie di S. Filippo Neri, dei Santi Restituto, Valentino, Vincenzo e Vittorino, <>. Il culto di S. Filippo Neri si diffuse rapidamente nella nei fedeli di Montecorvino. La devozione verso il Santo é testimoniato da alcuni miracoli avvenuti in loco e attestati da scritture notarili. Tutto ciò fu determinato anche dall’opera indefessa svolta dal parroco D. Diego Tasso, il quale oltre ad essere un pio devoto del santo fiorentino, si dimostrò un profondo conoscitore della sua vita e dei suoi miracoli.
02
“Si fa piene et indubitata fede per me sotto Notare che Martino Rodoero della terra di Montecorvino, a che la presente spetterà vedere, o sarà in qual modo presentata in giudizio, con giuramento, come nel mese di marzo 1641, sopraggiunge un morbo epilettico a Giuseppe, età anni due in circa, con tanta violenza, che quantunque s’adoprasse ogni aiuto umano con medici, medicine et antidoti sia poco tempo disperato di salute, atteso sia una notte, et un giorno solo, detto morbo li sopraggiunse trenta volte in circa, lasciandolo ogni volta quasi morto, che appena palpitava, et essendo giunto a segno tale, che molte ore no poteva succhiare né zizza, ne rinfocilarsi con ogni altro cibo, alla fine conoscendo con mia moglie, che non bisognava avere in tal cosa confidenza et aiuto, o rimedio alcuno, deliberarono d’andare divotamente a dimandarlo in grazia al glorioso San Filippo Neri, la cui reliquia si conserva nella nostra parrocchiale Chiesa di San Michele Arcangiolo, siccome essendovi andata detta mia moglie, lacrimando buttò il figliolo semivivo sopra l’altare di detto Santo glorioso, dimandandolo in dono, conforme in effetto subito rinvenne in se, et nell’istesso luogo pigliò la zizza, quale per molto tempo havea rifiutata, reportato a casa e prendendo maggior confidenza dell’aiuto del Santo, mandammo a chiamare il Rev
03
Don Diego Tasso, Cappellano di detta Chiesa e Rettore di detta Cappella, acciò con la sua presenza ci consolasse, et con sue orazioni intercedesse per la Grazia, il quale subito venne e raccontatoli il tutto, prese una particella della Pezza del rettorio di San Filippo, et attufata in poco d’acqua, con dire l’orazione ordinaria del Santo, la diede a bere al figliolo, et da allora in poi cessò totalmente il morbo et fra pochissimo tempo l’ammalato fu guarito. Non lasciando da dire che il caso era tanto disperato che io povero padre, amante tenerissimo d’unico figliolo, per no ritrovarmi nel tempo di sua morte, andai a dormire in casa di detto Rev. Don Diego Tasso, acciò con di lui discorsi spirituali alleviasse il dolore, et quando la mattina aspettavo la sepoltura, mi venne di Grazia.
04
Et per essere il tutto la verità, et acciò in tanto miracolo non venghi occupato dal tempo, ad onore et gloria di detto Santo miracoloso ho scritto la presente di mia propria mano, in Montecorvino, il dì primo aprile 1641.
Io Martino Rodoero V.J.D. fo fede come sopra.
05
Io Don Diego Tasso, Cappellano, come sopra faccio fede, come requisitio dal detto Dott. Martino e sua moglie che diede a bere al detto figliolo un poco d’acqua bagnata con una particella di Pezza del rettorio del detto Santo che avevo in mio potere, e per li meriti di detto Santo ne seguì subito la salute, come sopra il caso tanto disperato che detto Dott. Martino volse la sera venire a dormire meco per non ritrovarsi a tempo spirava detto figliolo, e la mattina di buonora andandomi insieme per strada incontrantomi con Filippo di Recco, quale domandato se il figliolo era spirato, rispose allegramente che era sano e che dopo havea bevuta l’acqua di San Filippo non li havea più pigliato il morbo, e detto Filippo (di Recco) lo sapeva per essere stato la stessa notte, con altre persone in casa del detto Dott. Martino per detta causa che si aspettava la morte del figliolo, per consolare la madre, e per essere la verità, scrissi di mia propria mano, die e anno come sopra.
06
Don Diego Tasso di mano propria. Faccio fede il notaio Federico Bello di Montecorvino presente e retroscrivente, scrisse di propria mano i sopradetti Giovanni Martino Rodoero e il Rev. Don Diego Tasso.
Si Fa fede piena ed indubitata co giuramento, a che la presente spetterà vedere come sarà presentata à dì 25 giugno 1642 a che tempo che si faceva la volta del coro della Parrocchiale Chiesa di San Michele havendo li fabbricatori posti li legnami e ritrovandomi io Zinobio Oliviero nella mia finestra, si spezzaro tutti li legnami e cascò la forma con il fabbricatore, e vedendo l’evidente pericolo di morte, con lacrime gridai: << Santo Filippo aiutolo che tocca a te aiutare>>, giudicando ritrovarsi morto il detto fabbricatore cascato, per grazia del Signore lo ritrovammo sano ed illeso senza lusura alcuna, et essendo questa la verità, et a gloria et honore di Dio e del Santo suo, e ne ho fatto scrivere la presente per mano di Don Diego Tasso, firmato di mia propria mano, in Montecorvino lì 20 marzo 1643.
07
Io Zinobio Oliviero confermo quanto di sopra.
Io Notaio Federico Bello confermo quanto di sopra.
Io sottoscritto Zinobio Oliviero firmo di propria mano.

In fede signavi ad hoc con signum Notari.

08
Si fa piena ed indubitata fede estratta co giuramento a che spetterà vedere e sarà in qualche modo presentata, per me Francesco Sparano del casale di San Martino, della terra di Montecorvino, qualmente nel mese di giugno 1642, avendo una morra di porci infetta, che ne morivano due o tre al giorno, e stando attualmente due o tre ammalati, che uno stava per morire, mi voltai devotamente al glorioso San Filippo Neri, la reliquia del quale si conserva nella nostra Chiesa di Santo Michele, pregandolo che si degnasse implorarmi ed impertrarmi al Signore, per non farne più morire offrendogli un porco in voto ricevendo la grazia. Il giorno seguente o l’altro, venne da me il parroco e domandato che facevano li porci, mi rispose che non era morto alcuno più e che gli ammalati erano sanati tutti. Il che intendendo io Francesco Sparano baciai in terra, ringraziando il Santo della Grazia per mezzo suo ottenuta, ne di poi era morto alcuno più.
09
Et essendo questa la verità a gloria et honore di Dio benedetto, e del Santo suo, ne ho fatto scrivere la presente per mano di Don Diego Tasso, con segno di croce di mia propria mano, in Montecorvino lì 10 agosto 1642.
Segno di croce di propria mano del sopradetto Francesco Sparano per non saper scrivere.
In fede io Nataro Federico Bello faccio fede con proprio segno.
10
Si fa vera ed indubitata fede, con giuramento a che la presente spetterà vedere, per me Severino Tasso della terra di Montecorvino, qualmente l’anno passato nel mese di luglio, ritrovandomi a Napoli, dove attendea alla pratica di notaro, infermo di febbre continua di modo tale che in sei giorni in circa, non potei mangiare altro, che quattro onze di confetti in circa, et il mio medico mi teneva per morto, nel qual tempo più volte mi raccomandai al Glorioso Santo Filippo Neri et in particolare un venerdì ricordandomi che era il giorno nel quale si faceva la Congregazione in Montecorvino, mi voltai al detto glorioso Santo, pregandolo con molto affetto, acciò avesse interceduto per me appresso Iddio Onnipotente la Grazia di non farmi venire più la febbre.
11
Con affetto l’istessa sera cominciai a migliorare , et a pigliare cibo, il sabato venne il medico e mi ritrovò senza febbre, et il stesso giorno mi alzai per la casa, e la domenica immediata seguente andai per Napoli, e per essere questa la verità a Gloria di Dio et honore del detto glorioso San Filippo Neri, mio particolare avvocato, et intercessore, ne ho scritto la presente di mia propria mano, et signata col mio solito sigillo, come Notaro Apostolico, in Montecorvino lì 4 gennaio 1644”.
12

Archivio Parrocchiale di S. Michele e S. Filippo Neri, Manoscritto del canonico Carmine Antonio D’Alessio, Inventarium omnium bonorum iam mobili quam stabilium venerabilis Cappellae: Philippi Neri oppidi S. Martini Civitas Montiscorvini Acernem Diocesis, anno 1753.

A cura di Vito Cardine

Il feudo di ‘Fosso e Verdesca’: prime attestazioni e modalità di gestione*

01
Nei protocolli del notaio giffonese Antonello De Dario, conservati nell’Archivio di Stato di Salerno, si possono leggere due atti relativi al feudo di ‘Fosso e Verdesca’ del 1488, uno del 29 marzo e l’altro del 26 luglio (1). Allo stato attuale delle ricerche essi rappresentano la prima attestazione dell’esistenza di questo importante feudo dello Stato di Montecorvino, la cui storia interesserà tutta l’età moderna fino alle leggi eversive del XIX secolo. Dividerò l’intervento in due fasi: prima cercherò di chiarire le vicende che hanno portato alla nascita del feudo; poi, con l’ausilio degli atti notarili sopra citati, ne analizzerò la gestione sul finire del XV secolo.
02
Il territorio del feudo rientrava nella vasta area indicata nei documenti longobardi e normanni con il toponimo Lama, termine di origine classica che, nel nostro caso, significa ‘pantano’, ‘luogo paludoso’, ‘acquitrino’ (2). Tale doveva apparire, infatti, il territorio in questione, attraversato da fiumi e torrenti (come il Tusciano, il Vallemonio, lo stesso Lama ed altri) le cui acque, scarsamente o affatto irreggimentate, straripando nei periodi di piena allagavano i terreni circostanti, rendendoli malsani e poco atti alla coltivazione. Tuttavia, nell’inquadramento territoriale generale, la zona ha rappresentato fin dall’antichità un importante snodo viario e commerciale, interessato da numerose arterie che univano le aree costiere con l’interno appenninico, nonché il nord campano con la Lucania. Punto di passaggio obbligato, l’area fu oggetto di controllo fiscale e militare da parte del potere costituito: il toponimo Verdesca (3) indica la zona in cui sorgeva una postazione di avvistamento e, verosimilmente, il luogo in cui si pagava il pedaggio per il transito di uomini, animali e merci. Nel 1321 compare nella documentazione il toponimo Fosso (4), localizzato nella parte bassa della contrada Lama, alla confluenza del torrente Lama con il Tusciano. Il XIII secolo aveva visto il consolidarsi dei beni di grandi proprietari ecclesiastici, quali la badia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, i monasteri salernitani di S. Benedetto e S. Giorgio, quello amalfitano di S. Lorenzo: i possedimenti maggiori appartenevano tuttavia all’arcivescovo di Salerno, feudatario dello Stato di Montecorvino.
03
Tra la fine del ‘200 e l’inizio del secolo successivo, in un periodo di crescita demografica, l’arcivescovado (forse di comune accordo con gli altri enti ecclesiastici) probabilmente avviò un’opera di «bonifica» attraverso la realizzazione di canali e fossati (da cui il toponimo Fosso), al fine di ridurre il più possibile le zone paludose e aumentare la quantità di terreno coltivabile. In tale contesto, non lontano dall’antica postazione della ‘Berdesca’, l’arcivescovo favorì la nascita di un piccolo abitato (il casale ‘Fossi’), dove esercitava il diritto di piazza e di mercato sulle merci che entravano e uscivano dal feudo di Montecorvino (5). Nei decenni successivi, però, l’autorità del prelato fu probabilmente intaccata dall’emergere di classi sociali economicamente e politicamente influenti (6), tanto che nel 1370 fece redigere un documento con il quale ribadì i diritti che gli spettavano in quanto feudatario di Montecorvino. Nonostante ciò, nel turbinio delle lotte tra durazzeschi e angioini filo- francesi, il feudo di Montecorvino venne tolto alla Chiesa Salernitana (7). E’ plausibile supporre, quindi, che sul finire del secolo i territori del Fosso e della Verdesca furono “staccati” dallo Stato di Montecorvino, infeudati separatamente e concessi a Bertrando Sanseverino (8), capostipite del ramo dei Conti di Caiazzo. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che nella documentazione quattrocentesca, tra i possedimenti salernitani dei Conti di Caiazzo, compare il territorio del ‘Fosso’, anche se non è possibile identificarne in modo preciso l’ubicazione territoriale. I documenti del 1488 che stiamo esaminando chiariscono, a mio parere, che il ‘Fosso’ in questione è proprio il feudo di “Fosso e Verdesca”, in quanto nelle scritture successive non compare nessun altro possedimento con questo nome. Nel 1530 il feudo fu venduto da Roberto Ambrogio Sanseverino D’Aragona a Michele Giovanni Comes (9) e da questi passò ai Denza di Montecorvino, che ritroviamo proprietari nel 1557 (10). Nel 1488, dunque, il feudo apparteneva al Conte di Caiazzo, Giovan Francesco Sanseverino D’Aragona: il 29 marzo Luigi D’Alessio di Giffoni, suo procuratore, lo affittò a Bernardo De Ligorio di Montecorvino. Tuttavia, l’atto stipulato il 26 luglio successivo ci informa che i conti di Caiazzo risultano proprietari del feudo anche nel 1484, in quanto lo stesso Luigi D’Alessio si ritrova debitore nei confronti del tesoriere del Conte per una parte dell’affitto relativamente all’anno indicato dalla ‘terza indizione’, che corrisponde appunto al periodo settembre 1484- agosto1485 [ … prefatus namque loysius … asseruit se teneri et debere dicto … erario certam pecunia ex resta … affittationis seu venditionis staley fossi verdesche annis tertia inditionis … ]. Il denaro, in realtà, doveva essere pagato dagli eredi del defunto Masello De Abello a Luigi D’Alessio, il quale cede il credito al tesoriere del conte [ … et dictus loysius debet habere ab heredes quondam masellj deabello … ] . Da ciò possiamo dedurre, quindi, che il D’Alessio gestiva il feudo di Fosso e Verdesca in veste di procuratore da diversi anni.
04
La gestione del fondo appare alquanto articolata: il feudatario nominava un procuratore locale, il quale dava in fitto il territorio a terze persone, che a loro volta concedevano porzioni del feudo ad altrettanti affittuari che ne curavano la coltivazione. L’accordo stipulato il 29 marzo è un esempio di questo elaborato sistema di gestione. L’atto è redatto alla presenza del giudice Gabriele Cipparono e di alcuni testimoni, ossia il notaio Gabriele De Dario, Desiato Cesaro, Bernardino De Napoli, Domenico D’Alessio, tutti di Giffoni, e un tale Michele De Giovannino di Montecorvino. Il prezzo dell’affitto è stabilito in 23 moggi di frumento (11), in proporzione di 2/3 di grano e 1/3 di orzo [ … pro modiis viginti tres frumenti seu victualijs … hoc modo videlicet duas partes graniy et tertiam partem ordey ad iustam mensuram tuminis neapolitanis … ], oltre a quattro fosse granarie presenti nel feudo stesso, riempite di grano ed orzo (sempre con rapporto 2/3 ed 1/3) che rimangono a disposizione del feudatario [ … et quattro silo … et non se possa ad movere … ]. Bernardo, dal canto suo, ha il diritto di usufruire a suo piacimento del restante raccolto e di riscuotere la tassa del ‘terraticum’ secondo la consuetudine del luogo [ … cum pacto pro liceat dicto bernardo exigere terragium dicti feudi eo modo et forma prout solitum fuit exigere temporibus praeteritis … ]. I 23 moggi di frumento suddetti devono essere portati nella casa del D’Alessio a spese del De Ligorio entro il mese di agosto, con l’esenzione a favore dell’affittuario del pagamento della tassa sul trasporto [ … et consegnare in domo dicti Loysij ad expensas predictus bernardi pro totum mensem augusti proximus futuris cum pacto que dictus loysius teneatis eximere ad partem dictum bernardinus (sic) obligatione vectigaliis montiscorvini … ]. A questo punto nell’atto viene inserita una clausola che consente al De Ligorio di non pagare in tutto o in parte il prezzo dell’affitto nel caso si fossero verificati eventi imprevisti, quali inondazioni, incendi o devastazioni dovute a guerre [ … aqua igne et guerra … ], a patto che l’affittuario comunichi di voler usufruire dell’esenzione entro la fine del mese di giugno (12) [ … possit dictum staleum prevenire … pro totum mensis junij … ]. L’atto si chiude con le solite formule finali in cui le parti si impegnano a rispettare i patti assunti.
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I documenti, letti al di là dei nudi accordi presi tra i contraenti, offrono uno spaccato di vita quotidiana nella Montecorvino di fine Quattrocento: esponenti della ‘borghesia’ emergente e del vecchio patriziato rurale amministravano i beni patrimoniali di possidenti locali e non, investendo i propri capitali nell’affitto di terreni, mulini, gabelle ed altri diritti feudali; mentre poveri contadini coltivavano piccoli fondi di cui non erano proprietari, pagando dazi a volte esorbitanti per il pascolo, per la coltivazione, per la macinatura, ecc., che lasciavano loro appena il necessario per sopravvivere. Possiamo immaginare Luigi D’Alessio, procuratore del Conte di Caiazzo, capitano di ventura impegnato nelle sue battaglie al soldo di re, papi e imperatori, complottare in combutta con Bernardo De Ligorio e con il tesoriere del conte, stipulando contratti vantaggiosi per tutti, tranne che per il feudatario e i contadini che lavoravano le terre del feudo. Luigi D’Alessio nel 1488 riempiva i propri granai con ben 100 quintali tra grano e orzo, ma non sappiamo quanto ne restava al conte nelle quattro fosse scavate nella masseria; Bernardo De Ligorio riscuoteva il terratico da decine di piccoli affittuari, misurando sicuramente ‘al colmo’ (13) il grano e l’orzo da essi dovuti per la concessione, ma non sappiamo quanto ne avanzava per le loro esigenze familiari. Ai poveri contadini che sudavano nelle paludose e malariche terre della Piana rimanevano le briciole del duro lavoro, condannati ad una vita di stenti e fatica.
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Ricerche d’archivio a cura dell’Ing. Sabato D’Alessio.

Note:

  1. A. S. S., notaio A. De Dario, B. 2732.
  2. Cfr. “Du Cange, et al., Glossarium mediae et infimae latinitatis, éd. augm., Niort : L. Favre, 1883-1887, t. 5, col. 016b”. Nel latino classico il termine ‘lama’ indicava un luogo argilloso e voraginoso originato da solchi dovuti alle piogge. Paolo Diacono nel primo libro della sua “Historia Langobardorum” al cap. 15 sostiene che i longobardi traducevano con ‘lamam’ il termine latino piscina, ossia peschiera (per pesci), cisterna: per estensione quindi si definirono ‘lama’ tutte quelle zone in cui l’acqua ristagna: paludi, acquitrini, pantani, ecc.
  3. Cfr. “Du Cange”, op. cit., t. 1, col. 637b: “Berdesca, castellum ligneum ad munitionem castri et oppidi”. Berdesca deriva dal latino medievale brittisca, cioè «torre o fortificazione bretone, alla maniera dei Bretoni», cfr. “Dizionario Treccani on line”, sub voce. In età medievale indicò una torretta, costruita in legno o muratura, realizzata a piombo o sporgente rispetto a un muro di difesa, con principale funzione di guardia e avvistamento. Cfr. “Carbone G., Dizionario militare, Torino, 1863”, sub voce; “Dizionario di fortificazione”, sub voce, in “De Marchi F., Architettura medievale, Roma, 1810”.
  4. Cfr. “J. Mazzoleni, R.Orefice, Codice Perris – Cartulario Amalfitano (Sec. X-XV), vol. III, Centro di Cultura e Storia Amalfitano, Napoli, 1987, pp. 819-822”.
  5. Archivio Diocesano di Salerno (d’ora in avanti A. D. S.), Reg. Mensa, n. 33 (k 33), interamente trascritto in “L. Scarpiello, R. Vassallo, A. D’Arminio, C. Vasso, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia, 2001, pp. 25-33.
  6. Cfr. “Amalia Galdi, Conflittualità, dinamiche sociali e potere regio nella Salerno angioina: momenti di una ricerca in progress, Mélanges de l’Ecole francaise de Rome – Moyen Age” [En ligne], 123- 1 | 2011, mise en ligne le 20 février 2013, consulté le 22 mars 2023. URL: http://journals.openedition.org/mefrm/680; DOI : https://doi.org/10.4000/mefrm.680.
  7. Cfr. “AA. VV., Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., p. 35-36.
  8. OCfr. “Mattia Casiraghi, Roberto Sanseverino (1418-1487) Un grande condottiero del Quattrocento tra il Regno di Napoli e il Ducato di Milano, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Studi Umanistici, A.A. 2016-2017”, in particolare le pp. 20-28.
  9. Cfr. “Lorenzo Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, vol. I, Napoli, 1797, p. 92.
  10. A. S. S., Notaio N. Venturello, b. 3247, atto del 30 dicembre 1557.
  11. Considerando che il moggio, misura di capacità nominale, corrispondeva a dodici tomoli e che il ‘tomolo napoletano’, in seguito alla riforma fiscale di Ferdinando I del 6 aprile 1480, misurava circa 55 litri, i 23 moggi ammontavano a circa 72 quintali di grano e circa 31 di orzo.
  12. Secondo la forma tipica degli atti notarili dei secoli XV-XVI( per cui cfr. “Leone Spelungano, Artis notariae tempestatis, Venezia, 1574, pp. 48-50”) l’affitto ‘ad staleum’ prevedeva solitamente il pagamento con i frutti del raccolto e che l’affittuario si assumesse tutti i rischi per «incendium, omnemque casum fortuitum, sterilitates, eventum bellorum, seu guerrarum discrimina, avium impressionem, et omnem aliam ruinam». Nella prassi, però, visti gli ingenti quantitativi di merce corrispondenti al prezzo da pagare, per evitare le frequenti liti giudiziarie nel caso di inadempienza dell’affittuario dovuta a eventi imprevisti, si concedeva allo stesso la facoltà di poter usufruire di una deroga nel pagamento qualora si verificassero tali circostanze. In concreto l’affittuario comunicava entro un tempo stabilito l’impossibilità di pagare tutto o parte dell’affitto a causa di mancato o scarso raccolto, impegnandosi comunque a corrispondere il dovuto negli anni successivi quando la produzione sarebbe stata ‘normale’.
  13. Nel meridione d’Italia l’unità di misura per gli aridi era il tomolo, che variava nelle diverse province, ma spesso anche tra villaggi vicini. La riforma di Ferdinando I del 1480, come detto alla nota undici, ne fissò la capacità a circa 55 litri, anche se l’editto regio trovò scarsa applicazione nella realtà, tanto che nel 1840 Ferdinando II di Borbone emanò una nuova legge nel tentativo di unificare le unità di misure in tutto il Regno, prima della definitiva adozione del sistema metrico decimale con l’Unità d’ Italia. Alla promiscuità delle misure si aggiungevano i metodi fraudolenti praticati da mercanti, gabellieri, locatari, funzionari, ecc., nell’uso degli strumenti per la misurazione: il tomolo, ad esempio, veniva riempito fino all’orlo ( e si diceva ‘a raso’ ) nel caso si dovesse pagare, oppure superandolo fino a che non cadevano i chicchi ( e si diceva ‘al colmo’ ) nel caso invece si dovesse riscuotere …. A danno ovviamente della povera gente!!!